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Channel: Progetto Condor – Pagina 26 – IsAG // Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
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“Dopo le rivolte arabe: il nuovo Mediterraneo” a Brescia

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Si è tenuta sabato 17 settembre 2011 (ore 15.30) a Brescia, presso il Best Western Hotel Master di Via Luigi Apollonio 72, la conferenza “Dopo le rivolte arabe: il nuovo Mediterraneo”.

Sono intervenuti come relatori: Tiberio Graziani (presidente dell’IsAG), Daniele Scalea (segretario scientifico dell’IsAG, co-autore di Capire le rivolte arabe), Aldo Braccio (redattore di “Eurasia”, autore di Turchia, ponte d’Eurasia) e Stefano Vernole (redattore di “Eurasia”).

L’organizzazione è stata a cura dell’associazione “Nuove Idee” e dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).

Di seguito il video integrale dell’evento.

 
Prima parte:

Seconda parte:


P. Buttafuoco recensisce “Capire le rivolte arabe” su “Panorama”

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Pietrangelo Buttafuoco ha recensito la pubblicazione dell’IsAG Capire le rivolte arabe, di Pietro Longo e Daniele Scalea, nel n. 40 del 28 settembre 2011 della rivista “Panorama”. Di seguito l’articolo pubblicato dal periodico:

 
A pochi passi da casa nostra si sta facendo la storia. Capire le rivolte arabe non è solo un imperativo che ci riguarda, ma anche il titolo di un libro proprio necessario. È quello di Pietro Longo e Daniele Scalea, due studiosi orientalisti e non due generici “analisti” improvvisati, quelli che dai giornali ancora prima di verificare notizie e accadimenti fanno da mosche cocchiere alla xenofobia e all’islamofobia.
Quello che sta succedendo vicino a noi, dal Bahrain alla Libia, viene spiegato incrociando dati, cifre, verifiche economiche e, ovviamente, illustrando le specificità culturali di un mondo che non è speculare rispetto ai pregiudizi che ci siamo costruiti.
È dunque un lavoro neutrale per come può essere considerato tale una ricerca scientifica.
Particolarmente interessanti i capitoli sugli scenari futuri.
È edito dall’Istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie, e non si tratta di esercitazioni scritte sull’acqua ma di una fotografia presa dal vero.

L’IsAG al convegno internazionale “La Romania e i diritti umani”

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Si è tenuto sabato 24 settembre a Torino, dalle ore 9.30 alle ore 18, il convegno internazionale italo-romeno “La Romania e i diritti umani”, presso il Centro Congressi Regione Piemonte di corso Stati Uniti 23.

L’organizzazione è stata a cura di Regione Piemonte, Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), Poesia Attiva, Ufficio Pastorale Migranti, AIDA, Accademia di Romania in Roma.

Cliccare qui per scaricare la brochure di presentazione, col programma completo, in pdf.

Capire le rivolte arabe: P. Longo e D. Scalea intervistati da “Il Democratico”

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Il segretario scientifico Daniele Scalea e il ricercatore Pietro Longo sono stati intervistati da Giacomo Guarini per “Il Democratico” a proposito del loro ultimo libro, Capire le rivolte arabe, pubblicato col marchio dell’IsAG. L’articolo originale può essere visto cliccando qui. Di seguito la riproduzione.

 
Il Vicino Oriente è un’area geografica sempre al centro dell’attenzione da parte dei media e degli analisti dei più svariati settori (politico, economico, militare, etc.). I motivi di questo interesse sono in buona parte intuibili: si ha a che fare con un’area tanto strategicamente importante da un lato, quanto instabile e centro di intense conflittualità dall’altro. L’anno in corso è stato caratterizzato da un’attenzione globale ulteriormente accresciuta a causa del vasto e complesso fenomeno di rivolte che ha di fatto attraversato – con forme ed intensità diverse – l’intera regione.
Politici, intellettuali ed opinione pubblica occidentali hanno seguito sin da subito con grande entusiasmo simili fenomeni, vedendo in essi gli effetti di un grande e spontaneo movimento popolare, mosso dal riscatto contro governi autocratici e animato principalmente da giovani generazioni affamate di democrazia e di emancipazione sociale. Da ciò l’uso diffuso di espressioni idealizzanti quali “Primavere Arabe”, “Risorgimento Arabo” e simili.
Tuttavia, a distanza di alcuni mesi, si constata che molto dell’entusiasmo della prima ora si è smorzato. Diversi fattori possono aver contribuito a ciò; fra questi, il ‘congelamento’ della rivoluzione in Tunisia ed Egitto, così come il prolungarsi della guerra in Libia; un conflitto questo ben più lungo e travagliato di quanto le dichiarazioni d’intenti iniziali avessero potuto far credere. Più in generale, l’intero evolvere degli eventi nell’ area vicinorientale ha infine mostrato, in maniera inequivocabile, come i fenomeni in questione siano molto più complessi e sfaccettati rispetto al quadro dipinto dai media, pieno invece di retorica e semplicismo.
Due giovani studiosi hanno provato a fare il punto della situazione con un saggio eloquentemente intitolato “Capire le rivolte arabe” (Avatar Editions). Daniele Scalea e Pietro Longo, questi i nomi degli autori, hanno una formazione accademica rispettivamente nel campo della storia e dell’arabistica; inoltre si occupano entrambi di geopolitica, in particolare per la rivista Eurasia, di cui sono redattori. Il saggio in questione si presenta di grande utilità per chiunque voglia orientarsi nella complessità dei rivolgimenti in corso nel mondo arabo, dal momento che analizza in maniera sintetica ma rigorosa le dinamiche di breve e lungo periodo sottese ai fenomeni rivoluzionari, tratteggiandone inoltre in maniera convincente diversi possibili sviluppi futuri.
Oggi più che mai assume grande importanza una conoscenza basilare della realtà mediterranea e vicinorientale, tanto più in un paese come il nostro che, pur se legato all’area politico-culturale nord europea ed atlantica, si trova quasi interamente disteso al centro del Mediterraneo; da una tale posizione, l’Italia non può trascurare le realtà dell’altra sponda di quello che fu il mare nostrum, né tantomeno fingere di ignorarne i problemi salvo – in quest’ultimo caso – subirne in maniera ancora più brusca e traumatica i contraccolpi, come ci ricordano i due studiosi. Ci auguriamo quindi che, grazie anche alla diffusione di opere come quella di Longo e Scalea, possa maturare una diffusa consapevolezza della necessità di abbattere quell’invisibile muro politico-culturale che ci separa dal mediterraneo extraeuropeo.
Abbiamo incontrato i due autori del testo per porgli alcune domande sui fenomeni oggetto del loro studio.

Una fondamentale chiave di lettura offerta dal vostro lavoro per cercare di spiegare i fenomeni in corso è quella del dirompente affermarsi dell’Islam politico a scapito di un nazionalismo arabo oramai in declino. Potete spiegarne in breve il significato? Pur nelle loro specificità e differenze, possono trovare coerente inquadramento entro questa lettura anche i due scenari di crisi attualmente più seguìti ed incerti dell’area, quello siriano e quello libico?

Daniele Scalea: Poniamo come premessa che nell’Islam non esiste la “separazione tra Stato e Chiesa” come da noi, e quindi la distinzione tra movimenti laici e movimenti religiosi è per certi versi arbitraria. Ciò detto, è lecito parlare di contrapposizione tra un nazionalismo laico, spesso panarabo, ed una corrente religiosa, talvolta indicata come “Islam Politico” o “islamismo”. Se il nazionalismo laico ha prevalso nei primi decenni del dopoguerra, esso è da tempo in fase calante: fallimentare, delegittimato ed impopolare, sta lasciando spazio all’ascesa dell’Islam Politico.
Ciò avviene, o potrebbe avvenire, anche in Libia e Siria. Probabilmente Gheddafi non sarebbe mai stato rovesciato senza l’intervento straniero, ma questo c’è stato ed ora le porzioni più ricche e popolose del paese sono in mano ai ribelli, per lo più islamisti. Ad esempio il governatore di Tripoli, Abdelhakim Belhadj, è un veterano dell’Afghanistan: vi ha combattutto sia contro i Sovietici sia contro gli Angloamericani. Molti osservatori già da mesi indicavano nel Gruppo Islamico Combattente Libico (già affiliato a Al Qaida) la forza militarmente più significativa del CNT. Per quanto riguarda la Siria, tra gli oppositori più importanti va citata la Fratellanza Musulmana e, ancor più, i gruppi cosiddetti “salafiti”, o anche wahhabiti, che spesso si sono formati militarmente combattendo in Iraq contro gli USA.

Pietro Longo: Non bisogna cadere nell’eccesso di semplificazione: ciò che è avvenuto nel mondo arabo lungo quasi tutto il 2011 non è un duplice movimento di discesa delle ideologie nazionaliste e di ascesa di quelle informate all’Islam. Personalmente ho sempre contestato una separazione così netta tra queste due correnti e questo perché, a parte rari casi, nel mondo islamico il nazionalismo non si è mai qualificato totalmente come laico, al pari dell’omologo movimento europeo. Ciò detto, è pacifico che lungo questo primo decennio del XXI secolo abbiamo conosciuto un progressivo “risveglio islamico”, anche sottoforma di “rivincita sciita” a seguito di ben precisi accadimenti, come l’invasione US-led di Afghanistan e Iraq entro il primo quinquennio o lo sconfinamento in Libano dell’Israel Defence Force nel 2006. Tuttavia nel caso delle “rivolte arabe” bisogna certamente usare cautela e distinguere ogni scenario da qualunque altro. L’esempio egiziano è emblematico in ciò: una rivolta di piazza, scaturita dal malcontento di molteplici sfaccettature sociali, è stata senza dubbio cavalcata dalle forze islamiche, organizzatesi secondo nuovi partiti e associazioni, come il Partito Libertà e Giustizia affiliato alla Fratellanza Musulmana. In Tunisia, nel contesto dell’ipertrofia dei partiti politici, è stato reso legale il maggiore partito di opposizione, ossia al-Nahda dello Shaykh Rashid al-Ghannushi. Questo però può non implicare necessariamente che le frange politiche islamiche siano state le protagoniste della rivolta e potrebbe non essere nemmeno una garanzia per il futuro. Dopo una frattura più o meno violenta, entro qualsiasi ordinamento il potere politico dà luogo a fenomeni extra ordinem, non previsti da nessuna fonte normativa ma che si impongono di fatto. Non sembra casuale che, tornando al caso egiziano, il Partito Libertà e Giustizia si sia formato nel febbraio scorso ovvero prima che la Costituzione interinale adottata in aprile giungesse a vietare all’articolo 5 la formazione di partiti su base eminentemente religiosa.
Quanto ai casi della Libia e della Siria, siamo dinnanzi ad altri due scenari particolari. Nel primo il Consiglio Nazionale di Transizione appare formato da personalità eterogenee organizzatesi nell’area di Bengasi. Mustafa ‘Abd al-Jalil, ex Ministro della Giustizia dal 2007 e segretario del Consiglio Nazionale è un giudice proveniente dalla Facoltà di Shari’a degli atenei di Bengasi e di al-Bayda’. Ma questo fatto non è rivelatore di alcunché di specifico data la poca chiarezza sul programma politico dei “ribelli”, per il momento abbarbicati unicamente su posizioni anti-Gheddafi. La Costituzione interinale diffusa nell’agosto scorso poco ci suggerisce, salvo fissare la Shari’a come “la” fonte principale dell’ordinamento, come del resto nel caso egiziano, e informare l’educazione delle nuove generazioni allo spirito islamico e all’amore per la patria. Sarà necessario osservare come queste dichiarazioni di principio si tradurranno in politiche operative.
Infine in Siria, è vero che la Fratellanza Musulmana lavora quotidianamente per screditare il regime di al-Asad ma i comunicati e le dichiarazioni non sono improntante alla dialettica nazionalismo/secolarismo vs islamismo. Piuttosto si focalizzano unicamente sulla condanna alle stragi compiute dall’esercito e dunque alla perdita di legittimità dell’establishment al potere.

Sin dall’inizio dei disordini, abbiamo assistito a continue e gravi storture dell’informazione sui fatti di Libia e Siria, e per contro a prolungati silenzi sulle proteste in altri paesi quali Arabia Saudita, Bahrayn e Yemen.
Aspetto particolare è che questo atteggiamento non ha caratterizzato i soli media occidentali, ma è spesso partito proprio dai grandi mezzi di informazione panaraba quali Al Jazeera e al Al Arabiya. A quali logiche è ragionevole pensare che stiano rispondendo tali mezzi di informazione nelle crisi in corso?

DS: Come qualsiasi altro organo di stampa, alle logiche dei loro editori: ossia, rispettivamente, di Qatar e Arabia Saudita, ossia della famiglia Al Khalifa e della famiglia Saud. Entrambi i paesi – o meglio sarebbe dire le famiglie che non solo li dominano, ma li posseggono formalmente – nutrono ambizioni di potenza nella regione. L’Arabia Saudita ha un’ideologia ufficiale che è il wahhabismo, e s’impegna a diffonderlo nel mondo musulmano grazie ai petrodollari che affluiscono numerosi nelle casse del Regno. Il Qatar ha un’immagine più moderna ed una dimensione decisamente più piccola, ma è anch’esso molto ricco ed ha investito sui media come veicolo per procacciarsi influenza, e quindi potere, nella regione ed oltre (non a caso Al Jazira trasmette pure in inglese).

PL: I cosiddetti “media panarabi” hanno avuto un ruolo significativo in molteplici occasioni: durante gli eventi subito successivi al 9/11, durante la “caccia a Bin Laden” ed in generale nel corso della Global War on Terrorism, in diversi momenti della questione israelo-palestinese, nel caso dell’abbattimento del regime di Saddam Hussein in Iraq e così via. A volte al-Jazeera ha ricevuto le aspre critiche dell’opinione pubblica mondiale per la messa in onda di immagini particolarmente cruente o per la diffusione di notizie che potevano fungere da propellente ed infiammare gli animi. Nel caso della “primavera araba” questi network non sono stati meno presenti nei diversi scenari ed è sembrato che abbiano seguito delle agende ben precise. In verità questa critica può essere allargata a tutti i maggiori media globali, probabilmente protesi a confondere le idee sul reale svolgimento degli eventi. Basti pensare all’imprecisione, talvolta iperbolica, con la quale sono state riferite le stime delle morti nei diversi fronti. Nel caso libico però la questione è ancora più delicata, perché il coverage di al-Jazeera che ci ha condotti fin dentro al compound di Gheddafi, poco o nulla ha detto in merito alle casualità di civili procurate accidentalmente dai bombardamenti aerei. Lo slogan “l’opinione e l’opinione contraria” che fino a qualche anno fa era continuamente sbandierato dall’emittente qatarina, questa volta sembrerebbe aver preso delle derive nettamente unidirezionali.

Negli ultimi anni l’Italia sembrava fare passi avanti, pur fra evidenti limiti e contraddizioni, verso una politica di maggiore presenza nel Mediterraneo. Le crisi della regione hanno mostrato in realtà tutta la debolezza politica del nostro paese, che non si è in alcun modo distinto nell’azione politica e diplomatica e che si è lasciato trascinare in una guerra – quella libica – sicuramente non voluta a livello governativo. In che modo l’Italia rischia di pagare, se non lo sta già facendo, la sua impreparazione di fronte ai rivolgimenti dell’area? Nonostante ciò, dispone il nostro paese ancora di spazi di manovra politici anche minimi, atti a limitare i danni derivanti da simili destabilizzazioni?

DS: L’Italia sta pagando la crisi libica in vari modi. Innanzi tutto, ha perduto credibilità: col suo atteggiamento ondivago e col voltafaccia ai danni della Jamahiriya, con annessa sfacciata violazione del Trattato di Amicizia e di proditorio attacco ai danni della Libia. Tutto ciò è andato ad alimentare la leggenda nera – ahimé molto veridica – dell’Italia fellona, inaffidabile e incline al tradimento.
In secondo luogo, ha speso milioni di euro per condurre i bombardamenti contro la Libia e per gestire l’emergenza profughi, o per aiuti umanitari di varia natura.
In terzo luogo, anche nel caso piuttosto remoto che l’ENI mantenga davvero il ruolo di preponderanza che aveva in Libia, come garantisce Frattini, rimane il fatto che il flusso di petrolio e gas dal paese nordafricano non potrà recuperare i livelli precedenti prima di molti anni.
Inoltre, i contratti petroliferi dell’ENI rappresentano solo uno degli elementi di cooperazione economica precedentemente in atto tra Italia e Libia. In particolare, numerose imprese italiane – spesso PMI – ricevevano le commesse della Jamahiriya: inoltre, una parte consistente dei suoi petrodollari (quasi 10 miliardi) era investita nel nostro paese. Sicuramente gl’investimenti esteri libici si sposteranno ancor più decisamente verso la Francia e il mondo anglosassone, e le commesse della ricostruzione post-bellica saranno affidate alle imprese di questi altri paesi, non a quelle italiane.
Infine, in un’ottica strategica, un paese che si trovava nella nostra “sfera d’influenza” sta spostandosi verso quella francese, indebolendo il peso dell’Italia nel Mediterraneo.

PL: Gli storici delle relazioni internazionali rintracciano nella storia moderna del nostro paese tre “cerchi” di politica estera, o meglio due campi d’azione tradizionali ai quali dopo la Seconda Guerra Mondiale se n’è aggiunto un terzo per effetto dell’integrazione europea. Ai consueti spazi “balcanico” e “mediterraneo” si è aggiunto quello propriamente europeo. Come in un gioco di scatole cinesi però a monte di tutto ciò si trova l’altrettanto tradizionale “fedeltà atlantica” legata alla partecipazione alla NATO. I tre cerchi più l’opzione atlantica lungi dal formare un tutt’uno osmotico sembrano più che altro costituire una piramide.
Fuor di metafora, l’Italia ha scelto di imbarcarsi nell’avventura libica, venendo meno ad impegni bilaterali precedenti e scommettendo sul futuro. Nel 2008 l’attuale Premier italiano volava a Bengasi per firmare il Trattto di Amicizia, Partenariato e Cooperazione. A ben vedere però i semi di quel patto risalgono a ben 10 anni prima, quando Lamberto Dini, allora Ministro degli affari esteri, siglò un primo step. L’ENI poi ha sempre avuto un ruolo di primo piano nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi libici e per converso Tripoli ha posseduto investimenti nella FIAT. Sul versante politico, i due paesi si erano concentrati sulla cooperazione a prevenzione dell’immigrazione illegale (2000) e anti-terrorismo (2002), spianando la strada a quel quadro di “special and privileged relationship” secondo la dicitura ufficiale rimarcata dal Trattato di Amicizia del 2008. Tuttavia, come hanno mostrato i giuristi internazionalisti, quel testo non ha mai avuto la pretesa di fissare norme di “non aggressione” nonostante le clausole che impedivano, reciprocamente, la conduzione di atti ostili a violazione della sovranità territoriale. Ecco dunque perché la diplomazia romana ha potuto inscrivere questo trattato nel cerchio atlantico, senza creare incompatibilità. Finanche gli impegni economici stipulati dal medesimo trattato sono stati talmente onerosi da poter venire giustificati solo alla luce di un rapporto di amicizia sedimentato: l’Italia si impegnava a costruire infrastrutture di base per un valore di 5 miliardi di dollari, ottenendo in cambio sgravi fiscali per le imprese italiane operanti in Libia.
Stando a quanto annunciato nei mesi scorsi, nonostante il regime change il governo italiano considera il Trattato ancora in vigore e quindi si ritiene che, normalizzato il paese, gli impegni contenuti in esso verranno onorati. Bisognerà, anche in questo caso, attendere la fine delle ostilità per comprendere appieno le implicazioni di una mossa, quella italiana, che tutto è apparsa tranne che decisa in autonomia.

“Capire le rivolte arabe” a Firenze

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Si è tenuta giovedì 6 ottobre 2011 alle ore 21, a Firenze presso il Circolo Vie Nuove di Viale Donato Giannotti 13, la presentazione del libro Capire le rivolte arabe di Pietro Longo e Daniele Scalea, rispettivamente ricercatore e segretario scientifico dell’IsAG.

Sono intervenuti il co-autore Daniele Scalea, Giovanni Armillotta (direttore di “Africana”) e Vincenzo Durante (assistente ordinario, Università degli Studi di Firenze).

L’organizzazione è stata a cura del Circolo Vie Nuove.

Di seguito il video degl’interventi di Alessandro Michelucci (moderatore della serata) e Daniele Scalea, il testo dell’intervento di Giovanni Armillotta ed una cronaca apparsa sul quotidiano “Rinascita”.

 
IL VIDEO

 
L’INTERVENTO di Giovanni Armillotta

Inizierò l’esposizione del volume con un aneddoto. Nell’ottobre 2004 uscì il primo numero di «Eurasia» diretta da Tiberio Graziani, che in seguito s’è affermata – con «Limes», fondata nel 1993 e diretta da Lucio Caracciolo – come una delle due più importanti riviste di geopolitica. A dire il vero ci sono stati altri due tentativi di altrettanti periodici di tenore geopolitico, ma siccome entrambi non erano altro che l’espressione di sette politiche ben precise, essi hanno fallito. È patetico come la geopolitica possa essere considerata alla stregua di banchi di approfondimento di un “pensiero” promanante dalla “destra” o dalla “sinistra” o dai cattolici. Premetto, anzi postmetto, che a “pensiero”, “destra” e “sinistra” ho posto le virgolette. Ribaltando e parafrasando la nota frase di Ernesto Massi, perlomeno dalla seconda metà degli anni Ottanta del sec. XX, l’ignoranza della classe politica italiana ha fatto sì che la geopolitica essa né la praticasse e né la studiasse, delegando il tutto alla Casa Bianca.

La geopolitica non è la fonte delle scelte di politica estera da studiare con stantii parametri partitici e direi, in particolare, squallidi – considerando come opera la politica dei due versi (governativa e d’opposizione) nel nostro Paese – essa geopolitica si pone essenzialmente nei due parametri di valore che sono prassi e dottrine eurasiatista e atlantista. L’eurasiatista è la ricerca della fine della dipendenza dei popoli tellurocratici da quelli talassocratici, che ha definito le relazioni internazionali dalla nascita della potenza marinara inglese, sin da quando la Royal Navy di Elisabetta I sconfisse l’Armada Invencible di Filippo II nel 1588. Egemonia britannica che poi iniziò a declinare non dopo gli esiti della guerra d’indipendenza statunitense dal 1775 al 1783 che anzi rafforzò il “lago” Atlantico – ribellione, quella statunitense, scorrettamente definita rivoluzione, secondo i miei canoni di marxista non pentito che considera la struttura e la sovrastruttura come elementi fondanti dei rivolgimenti politici. La primazìa britannica prese a tramontare da quando gli Stati Uniti d’America uscirono, finalmente preparati al confronto militare, dal guscio della Dottrina Monroe (elaborata difensivamente nel 1823 contro la Santa Alleanza, e usata d’attacco in seguito), e con uno dei loro marchiani pretesti, affossarono i residui dell’Impero Spagnolo con la guerra contro Madrid, aprile-agosto 1898, la cosiddetta splendid little war.

Di conseguenza, oggi, la scelta atlantista, rispettabile e legittima al pari di quella eurasiatista, verte sul dover essere seguaci dell’“eccezionalismo messianico” statunitense sviluppatosi, appunto a partire dai primi insediamenti inglesi nell’America del Nord, nel sec. XVII, e poi del successivo periodo di espansionismo territoriale (riduzione del Messico al 25% della sua originale estensione, suddetta guerra ispano-americana, partecipazione nelle due guerre mondiali, con l’ultima in veste egemonica) fino agli anni della guerra fredda. Infine, dal trentennale periodo che va dalla Presidenza Reagan, 1981, all’11 settembre 2001. Non per nulla l’espressione “destino manifesto” degli Stati Uniti d’America fu coniata nel 1845 nel corso del conflitto che inquartò il Messico e fu poi riattualizzata, negli anni dell’Impero del Male comunista per poi riversarla contro nuovi nemici. Bush figlio si è messo in perfetta sintonia con questa “tendenza messianica” tradizionale, carica di fondamentalismo religioso antistorico, isolazionismo aggressivo in quanto rifiutante la visione paritetica del multilateralismo, teorie e pratiche a cuore sia dei repubblicani che dei democratici, facce diverse della stessa banconota. Lo stesso successore di Bush, e di conseguenza prodotto del grande capitale finanziario statunitense, si sta comportando come il precedessore.

Un’accurata inchiesta, uscita da una casa editrice fiorentina sino al 2005 (Ponte alle Grazie) già dal titolo demolisce le presunte differenze tra il partito repubblicano e quello democratico. Il libro Barack Obush, uscito il 7 luglio 2011, scritto da Giulietto Chiesa con Pino Cabras esplora senza paure tutti gli ultimi avvenimenti della politica internazionale. La manipolazione delle rivolte nel mondo arabo che ci riunisce nell’incontro di stasera; l’aggressione alla Libia, la perdita d’identità e valore dell’Europa in una sorta di silenziosa e rassegnata colonizzazione e trasformazione in melting pot di Serie B, di cui le ricchissime classi politiche sono insensibili; la tenzone con la Cina temuta da Washington sua “erede”, e le crisi dei debiti sovrani sono al centro dei grandi rivolgimenti in atto. Obama non è altro che uno dei migliori alleati dei piani dei neoconservatori. Gli stessi che sognano un nuovo ordine mondiale caratterizzato dal protagonismo armato degli Stati Uniti, ampliatosi durante la presidenza di Barack Hussein. Un progetto cullato dalla famiglia Bush e portato avanti da Obama. Il democratico è riuscito però a vendersi molto bene dati i luoghi comuni di cui è il massimo portatore nello versione tradizionale: bianco cattivo (Bush figlio), nero buono (Obama), ma entrambi sventolanti lo stars and stripes del capitale finanziario e dell’imperialismo unipolare. Chiudo la parentesi con un esempio emblematico. Non avete mai fatto caso che l’unico Paese al mondo che non ha una ragione sociale e specifica, insomma un nome ristretto, sono proprio i cosiddetti Stati Uniti d’America? Mi spiego: ci sono gli Stati Uniti Messicani, grandi Federazioni, quali Russia, Canada (entrambe di maggior superficie degli Stati Uniti), Brasile, Australia, India, Argentina, Nigeria, come anche di più piccole – basti citare per tutte la Svizzera – però non esiste Stato alcuno che faccia riferimento a una ripartizione zonale che comprenda addirittura un Continente – Stati Uniti d’America. Per cui un domani se col NAFTA si cerca di inglobare – quali colonie commerciali e perché no, politiche? – Canada e Messico, e il resto, quel nome resterebbe immutato. Ed è nello stesso che vigono i propositi di dominio planetario.

A questo punto è bene procedere con l’aneddoto.

Sfogliando il Numero 1, Anno Primo, dell’Ottobre-Dicembre 2004 leggo la formazione del Consiglio dei Redattori di «Eurasia», composto di personalità ampiamente conosciute nel campo della geopolitica: direttore Tiberio Graziani, Aldo Braccio, Aleksandr Gel’evič Dugin, Martin A. Schwartz, Carlo Terracciano e poi notavo il nome di Daniele Scalea, di cui non sapevo assolutamente alcunché. Su quel numero tradusse dal russo il contributo di Dugin, e sul numero successivo (Gennaio 2005) esordì in firma con la recensione di Italia, Germania, e Giappone, scritto dal padre della geopolitica, il tedesco Karl Haushofer (Monaco di Baviera 1869-Berlino 1946); il suo primo articolo vero e proprio apparve sul N. 2/2005 dal titolo Ucraina, terra di confine.

Nonostante cercassi sue biografie, pensavo che non apparisse mai il proprio titolo di studio fra le schede biografiche della rivista, in quanto trattavasi probabilmente di un anzianissimo professore universitario dalla modestia aulica, dal linguaggio stranamente attuale, un vecchio docente forbito che conosceva il russo alla perfezione e tante altre cose. Un giorno parlando con un amico, di cui non faccio il nome, gli chiesi: «Ma mi dici un po’ dove insegna ’sto Scalea?». Mi fa l’interlocutore: «Ah! Ah! Ah! [risata], sta per laurearsi: è uno studente, infatti ha poco più di vent’anni». Vi prego di non osare immaginare come ci rimasi… «Vent’anni???… e quando ha iniziato a studiare, a sei?».

Per cui, complimentandomi con lui e Pietro Longo per il volume, affermo che – per le possibilità concessemi – l’ho consigliato alle cattedre di Afro-asiatici e Paesi islamici, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pisa, cattedre che mi vedono quale uno dei componenti di commissione.

Scalea e Longo, rileggono i problemi della storia recente di tutti i Paesi arabi che si affacciano e non sul Mediterraneo (compresi Giordania e Iraq), chiedendosi, tra le altre cose, perché, malgrado l’allargamento dell’Unione Europea, l’Europa politica assolve nel Mediterraneo un ruolo così tenue, ossia non conta nulla, mentre, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti vi esercitano un’egemonia sempre più indiscussa? Come si spiega, in Medio Oriente e nei Paesi arabi, il sorgere e il diffondersi dell’islamismo radicale? Islamismo radicale che, ad esempio, in Siria – attualmente nel mirino di Stati Uniti e sodali (Gran Bretagna, Francia, Italia, ecc.), è il primo, l’islamismo radicale, a schierarsi a favore della Hillary Clinton contro Baššār al-‘Asad? Nel senso come mai la Siria laica che sin dai tempi del padre di Baššār, Ḥāfiẓ, da sempre aveva combattuto finanche la Fratellanza musulmana siriana in quanto anti-baatista d’un tratto è da eliminare? Pure a questa fondamentale domanda, risponde il libro.

Come sostiene il prof. Domenico Losurdo, ordinario di Storia della filosofia presso l’Università di Urbino: terrorismo, fondamentalismo, antiamericanismo, odio contro l’Occidente, complicità con l’Islam e contro Israele: queste sono le accuse che l’impero statunitense brandisce come armi affilate. Chiunque non sia con gli Stati Uniti è antiamerikano, con la cappa, nemico della pace e della civiltà.

Questo è un libro, un testo di studio e di critica, che spazia in uno scenario molto ampio, e ci dà chiavi di lettura dei recenti fenomeni che stanno sconvolgendo l’arco mediterraneo meridionale col tentato spaccio delle rivolte antimperialiste e antineocolonialiste mediterranee, dello Yemen, del Bahrein e dell’Oman, in fattori richiamanti masse di musulmani che si sono e si stanno ribellando per auspicare, invece secondo certa stampa embedded-copia-e-incolla, forme di governo liberal-democratiche in cui trionfino gli dèi che vediamo adorare ogni giorno: capitalismo, abolizione dei frutti delle lotte operaie e religione del tecnologismo; o per meglio dirla: a favore dei valori pornografici e cocacolistici dell’Occidente ameriko-franco-britannico. Gli autori mi permetteranno un accenno che vada più lontano. Perché Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia stanno tornando in Nord Africa?

La storia che gli italiani ignorano è nota ai Governi europei, agli statunitensi e a tutti coloro che hanno studiato l’influenza dell’energia nucleare sulla politica internazionale negli ultimi sessanta anni. Se in Italia è apparsa marginale o irrilevante, le ragioni, quindi, vanno ricercate altrove. Ma occorre anzitutto ricordare brevemente i termini della questione. Nell’autunno del 1956, periodo ben analizzato nel volume, il governo francese, presieduto dal socialista Guy Mollet, tirò fuori dal cassetto un vecchio progetto, di cui si era segretamente discusso nei mesi precedenti, e propose a due partner europei (Germania e Italia) un’intesa tripartita per la collaborazione atomica in campo militare.

La proposta fu avanzata dopo il fallimento della spedizione anglo-francese a Suez, in un momento in cui la Francia era impegnata nella guerra algerina e lamentava l’insensibilità della NATO per una questione che il Governo di Parigi considerava vitale, ma di cui agli Stati Uniti non importava niente.

Il riferimento a Suez conferma che il conflitto scatenato contro l’Egitto dalle due ex potenze europee con la complicità di Israele dopo la nazionalizzazione del Canale fu, insieme a quella di Corea, il primo grande spartiacque della politica internazionale nel secondo dopoguerra. Quando gli Stati Uniti, e pure l’Unione Sovietica – interessata a rientrare in Medio Oriente, dopo un esordio pro-israeliano – intervennero e imposero la cessazione delle ostilità, Gran Bretagna e Francia ebbero reazioni opposte.

A Londra i conservatori scelsero un nuovo primo ministro nella persona di Harold Macmillan, e dettero un colpo di acceleratore alla decolonizzazione formale, decidendo che il rapporto speciale come 51ª stella della bandiera statunitense era più importante dei loro vecchi sogni imperiali. La Francia conservò Guy Mollet alla testa del governo e decise testardamente che soltanto l’arma atomica le avrebbe permesso di non piegare la testa di fronte agli Stati Uniti. È così è stato sino all’avvento di Sarkozy, il quale liberandosi dell’indipendentismo gollista è tornato nella NATO, per poter riceve dalla Casa Bianca i vari permessi neocoloniali nel Mediterraneo. Ecco spiegato il fenomeno Libia, in poche parole. In pratica si spera che la fine degli Stati arabi laici, ma indipendenti (Libia e Siria) apra un varco nel quale entrerebbero i gruppi religiosi che avrebbero una crescente importanza. La scena, in maniera da dare all’Occidente il pretesto per entrare e “portare la democrazia”, però la loro. Ciò dimostra le vicende descritte in questo libro.

Ossia l’amministrazione guerrafondaia di Obama cerca di esorcizzare quanto accade sotto i suoi occhi nella penisola arabica e nel mondo arabo (rivolte – in maggioranza – sciite in Bahrein, Oman, Yemen e Arabia saudita, lenta ascesa dei Fratelli musulmani sunniti in Giordania, Egitto, nella stessa Libia conquistata, ancora moti soffocati in Tunisia e Algeria, espulsione e/o fuga degli ambasciatori israeliani da Ankara, Cairo e Amman) e cerca di esorcizzarlo per “riequilibrare” lo scacco matto nella regione, e continua a programmare la destabilizzazione della Siria.

E di rimando: i ribelli libici sono buoni. Gheddafi è cattivo. I ribelli siriani sono buoni, Asad è cattivo. Gli egiziani sono buoni, ma anche cattivi. I contestatori e dissidenti arabi del Bahrein, dell’Oman, dello Yemen e dell’Arabia Saudita sono cattivi.

Sono buoni, invece, i governi feudali di quegli Stati come pure buoni sono i governi al Maliqi, per l’Iraq e Karzai, per l’Afghanistan, imposti a mano armata dagli anglo-americani. Tunisini, algerini e marocchini, finché sono governati da regimi pro-Occidente sono naturalmente buoni. Se si rivoltano sono pericolosi e quindi cattivi.

Il brano riportato alle pagine 121-122, sviluppa il gioco di parola, ove si legge che: «[...] prende le mosse la logica di divisione del “Grande Medio Oriente” in regimi amici, o “moderati”, e regimi radicali e “fondamentalisti”. Al primo gruppo hanno fatto parte per tradizione il Marocco, la Tunisia, l’Egitto, la Giordania, al secondo gruppo invece la Libia, l’Algeria del FIS, la Siria e l’Iraq di Saddām Husayn. Lecitamente saremmo indotti a pensare che, in virtù di una certa affinità elettiva, i paesi della cosiddetta e monolitica “civiltà occidentale” siano stati più propensi a legarsi e stringere rapporti con i regimi laici, caratterizzati da politiche di marginalizzazione verso i movimenti islamici. Ma lo schema non regge se si considera che dei paesi nemici, addirittura del famoso “asse del male”, fa parte la Siria che, specie dopo il recente regime change in Iraq ed il conflitto in corso in Libia, resta l’unico paese arabo a tradizione socialista. Viceversa è notorio (e sottolineato a più riprese, tra gli altri, da Ahmed Rashid) come il regime del mullā ‘Umar, il “Principe dei Credenti” talibano, nel corso degli anni ’90 sia stato corteggiato da alcune cancellerie occidentali in merito a precisi progetti, poi abortiti, di approvvigionamento energetico. Anche l’esempio delle petro-monarchie del Golfo è significativo in tal senso. Il vero problema quindi non sembra essere il fantasma islamico che aleggia minaccioso per le strade di Damasco o di Algeri e Tripoli d’occidente, perché quello stesso “spettro” aleggia anche per le strade del Cairo, di Rabat e forse soprattutto di Amman».

Questo volume distrugge i luoghi comuni, le frasi fatte, le banalità di coloro che lavano i cervelli attraverso giornali e mass media, quelli con le palette in mano fra un concorso canoro, ed una trasmissione in cui “insegnano” chi è amico e chi no. È un libro completo e chiaro che tutti leggiamo senza rischiare di precipitare nell’erudizione, nell’eccesso di note, nella noia del particolarismo, grazie pure ad una cartografia curata con massima perizia ed eccellenza da Lorenzo Giovannini.

E per finire… un ricordo sull’Oman… la cui lotta di liberazione marxista-leninista degli anni Settanta era ricordata dalle trasmissioni di Radio Tirana, in lingue nazionale ed estere (italiano compreso) e da LP pubblicati in Francia [qui mostro il disco]. In Italia non se ne parlava.

Grazie.

 
“CAPIRE LE RIVOLTE ARABE” PER INFRANGERE I LUOGHI COMUNI DEI MEDIA OMOLOGATI di Aliena (da “Rinascita”)

Effetto domino? Contagio? Le cause delle agitazioni che stanno interessando l’area del Golfo Persico ed il Nordafrica sono profondamente differenti; tali dissomiglianze vengono illustrate in un fondamentale lavoro di Pietro Longo e Daniele Scalea, Capire le rivolte arabe: Alle origini del fenomeno rivoluzionario – edito pochi mesi fa per Avatar éditions e per l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).
A Firenze, il prestigioso Circolo Vie Nuove – ex Casa del Popolo del Pci – ha ospitato la presentazione del volume nell’ambito del tema Mediterraneo: Mare Mosso, avviato giorni addietro dagli interventi di Lucio Caracciolo e Umberto De Giovannangeli, per capire l’evoluzione politica, i nuovi equilibri, i traffici e il quadro socio-economico di questo teatro strategico che è il Mediterraneo. Il Circolo da tempo si segnala per iniziative e incontri culturali di primissimo livello nazionale; amministratore è Daniele Sordi.
L’incontro è stato organizzato da Alessandro Michelucci: direttore del Centro di documentazione sui popoli minacciati; esperto di minoranze; collaboratore dell’Università di Firenze sul progetto LanMob (dedicato ai problemi delle minoranze linguistiche europee); giornalista. Egli, inoltre, ha intessuto una fitta rete di contatti in Europa e in tutto il mondo e collabora a numerose testate cartacee e su internet.
Oltre all’autore Scalea, sono intervenuti Giovanni Armillotta, assistente di Storia dei Paesi afro-asiatici e islamici a Pisa, nonché direttore del periodico “Africana” (fra i sedici italiani consultati dall’ “Index Islamicus” dell’Università di Cambridge) e Vincenzo Durante, assistente ordinario di Diritto romano a Firenze, nonché saggista. “Si tratta di un gran bel libro, denso ed armonioso, di studiosi di alto profilo, orientalisti, ricercatori e redattori di ‘Eurasia’ – Rivista di studi geopolitici – non generici analisti improvvisati; una ricostruzione attenta, frutto di ricerche su un imponente materiale, lucida, scrupolosa e aliena da schemi interpretativi preconfezionati ed etnocentrici” ha osservato Durante.
Pietro Longo, arabista, è dottorando in Studi sul Vicino Oriente e Maghreb all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, dove si occupa di diritto musulmano e dei paesi islamici e nello specifico del cosiddetto Costituzionalismo islamico. Tra i suoi interessi ci sono anche la geopolitica e le relazioni internazionali del Vicino Oriente. Dal 2010 è nella redazione della rivista di geopolitica “Eurasia”. Daniele Scalea è laureato in Scienze storiche all’Università degli Studi di Milano, segretario scientifico dell’IsAG e redattore anch’egli della predetta rivista sin dal 2004. Nel 2010 ha pubblicato il libro La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali (Fuoco Edizioni, Roma 2010).
Gli autori, entrambi giovanissimi – come messo in risalto da Armillotta: di Scalea si potrebbe credere sia “un vecchio docente forbito che conosce il russo alla perfezione, dalla modestia aulica e dal linguaggio stranamente attuale”, non fosse, in realtà, poco più che ventiseienne – fanno chiarezza sugli ideali e le aspirazioni che animano i nostri vicini arabi, tratteggiando le future fattezze del mondo, una volta che l’ondata della rivolta avrà preso la piega imposta, male che vada, da Casa Bianca, Londra e Parigi.
In particolare, ha ribadito Vincenzo Durante, il testo “disvela la struttura nascosta della retorica dei media occidentali sulla primavera araba, alcuni dei quali hanno enfatizzato il carattere eroico e quasi romanzesco delle rivolte dipingendole come movimenti popolari spontanei che mediante l’autorganizzazione e l’uso di mezzi tecnologici hanno rovesciato i regimi tirannici che da decenni li opprimono. Altri hanno seguito la linea della diffusione di notizie esagerate di proposito, dai caratteri grotteschi, in modo da involgere un clima favorevole alle rivolte e ai rovesciamenti di regime. Si pensi alla notizia della pratica, da parte degli ufficiali di Gheddafi, di distribuire alle truppe dosi di Viagra, sì da risvegliare gli istinti dei combattenti e spingerli ad effettuare stupri punitivi sulla popolazione femminile degli insorti. E in questo anche media arabi molto noti hanno le loro responsabilità. La prima vittima della guerra è la verità, avvertiva Eschilo già nel V secolo avanti Cristo”.
Ancora una volta, la stampa omologata ha dunque peccato di retorica e semplicismo, dispensandosi dal riportare le vere sembianze di un fenomeno molteplice e variegato, nonché dal riferire la natura dei complessi rivolgimenti che ne scaturiscono. Si è voluto dar ad intendere che i vari gruppi etnici di rivoltosi anelino ad equipararsi, volontariamente, alle forme di governo liberal-democratiche – ispirate al consumismo massificante – che ottenebrano i cervelli occidentali. Una spessa cortina fumogena – ovvero, il polveroso cover-up informativo – ha eclissato le proteste sciite in Arabia Saudita, Yemen e Bahrein, distorcendo al contempo l’ascesa del Fratelli musulmani sunniti e gli eventi occorsi in Libia e Siria. “Nel Golfo abbiamo dei Paesi che sostanzialmente sono delle monarchie autoritarie; regimi basati sul potere patrimoniale di poche famiglie. Laddove invece, in Paesi come la stessa Tunisia, l’Algeria e l’Egitto, abbiamo una società civile molto più dinamica, in cui esistono dei partiti politici che, in qualche modo, hanno già interiorizzato la dialettica partitica e il processo democratico. Il Golfo Persico è una realtà a sé stante, in cui a decidere sono quelle poche famiglie che hanno interesse a non far entrare nuovi attori nel discorso politico, per mantenere l’amministrazione delle risorse petrolifere o, comunque, degli idrocarburi” aveva tenuto a precisare Pietro Longo, nel corso di un’intervista rilasciata, all’inizio di marzo, a RaiNews24.
Concorde nella suddetta analisi, Giovanni Armillotta individua nella condotta dell’amministrazione guerrafondaia di Barack Obama un tentativo di esorcizzare l’accaduto e preservare la propria immagine dall’onta dello scacco matto subito nella regione fra Iraq e Afghanistan e nella fine del progetto unipolare. Del resto, tale atteggiamento sembra essere perfettamente in linea con le aspirazioni dell’uomo da 110 milioni di dollari – la somma di denaro investito da corporation, lobby e banche nella prima, fragorosa campagna mediatica del presidente amerikano.
A parere di Durante, “quel che sta succedendo a un passo dalle nostre case, dalla Tunisia, al Bahrein, alla Libia viene spiegato incrociando dati, cifre, verifiche economiche e, ovviamente, illustrando le specificità culturali e socio-economiche, tra eterogeneità e complessità, di un mondo che non è speculare ai pregiudizi occidentali, alle teorie dello scontro di civiltà, alle teorizzazioni dei neo-con americani e dei loro emuli italiani sull’inconciliabilità ed incompatibilità fra islam e democrazia”. Ciascuno scenario della realtà vicinorientale è stato sviscerato nelle sue prerogative specifiche; il volume in questione rappresenta perciò uno squarcio nel velo dell’oblio e della mistificazione che ha contraddistinto, sinora, il pensiero unico dominante.
L’Italia, al di là delle proprie alleanze atlantiche, non può certo ignorare le imminenti e assai probabili ripercussioni di quanto si sta verificando nello spazio mediterraneo: presto o tardi, dovrà confrontarsi con varie incognite e complicanze – ad iniziare dalla crisi libica, di cui sta già pagando lo scotto sia in termini di credibilità, per aver violato il Trattato di Amicizia con la Libia, che di ingenti spese militari; nonché, con il peso dell’incertezza sul futuro approvvigionamento energetico della penisola, e la fine dell’egemonia imprenditoriale del Bel Paese sul e nell’ex Quarta Sponda.
Il pubblico, folto, ha posto domande numerose e stimolanti nel dibattito a conclusione degli interventi. In conclusione va detto che il volume è un primo passo verso la verità, quale liberazione dal pregiudizio: in tal senso, gli autori ci forniscono un indispensabile strumento.

“Capire le rivolte arabe” a Modena

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Si è tenuto sabato 8 ottobre 2011 alle ore 16.00, a Modena presso la Sala Conferenze della Circoscrizione Centro Storico in Piazzale Redecocca 1, la presentazione del libro Capire le rivolte arabe.

Sono intervenuti come relatori i due autori: Pietro Longo e Daniele Scalea, rispettivamente ricercatore e segretario scientifico dell’IsAG.

L’organizzazione è stata a cura di “Pensieri in Azione” e dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).

Di seguito il video ed alcune immagini dell’evento (cliccare su ogni singola immagine per ingrandirla).

 
Prima parte:

Seconda parte:

 
Filippo Pederzini introduce i relatori

Un momento della conferenza

Il pubblico in sala

Daniele Scalea pronuncia il suo intervento

L'intervento di Pietro Longo

T. Graziani al IX Forum di Rodi “Dialogo di Civiltà”

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Dal 2003 si svolge annualmente sull’isola di Rodi (Grecia) il World Public Forum “Dialogue of Civilizations”, presieduto da Vladimir Jakunin ed organizzato in collaborazione con vari enti nazionali ed internazionali tra cui UNESCO, Lega Araba, ASEF e IPO. Anche quest’anno, in occasione della nona edizione svoltasi dal 6 al 10 ottobre, è stato invitato Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG.

Il presidente Graziani ha preso parte a due panel, rispettivamente su Structural problems of the contemporary economy e BRICS – prospects and dialogue collaboration format, discutendo i rapporti presentati dai relatori.

Tra i partecipanti, oltre al fondatore e presidente del WPF Vladimir Jakunin (presidente delle Ferrovie Russe ed ex ministro) ed al presidente Graziani, si segnalano Alfred Gusenbauer (ex cancelliere austriaco, co-presidente del WPF), Johann Galtung (fondatore del Oslo Peace Research Institute), il metropolita Vladimir (in rappresentanza del Patriarcato di Mosca) e Michail Bogdanov (vice-ministro russo degli Affari Esteri), oltre ad un gran numero di studiosi ed addetti ai lavori provenienti da tutto il mondo.

Di seguito alcune foto dell’evento (clicca sulle singole immagini per visualizzarle nella loro interezza).

 
Il ricevimento di benvenuto

Foto di gruppo per i partecipanti al Forum

Il Forum è un'occasione d'incontro per rappresentanti di varie nazioni e fedi

La platea

V. Jakunin apre i lavori

V. Jakunin, presidente del WPF, e Julia Kinash, a capo dello Youth Time International Movement

L'evento è stato seguito dai media internazionali

Lo splendido scenario di Rodi

Persone da tutto il mondo sono convenute a Rodi

Un momento del Forum

Un momento del Forum

Un panel al lavoro

Foto di gruppo: Tiberio Graziani è nella fila seduta, il primo a destra

Evgenija Kirilova (Estonia)

Ruslan Grinberg (Accademia delle Scienze russa)

Informazione e “soft power” tra Russia e Europa: T. Graziani a Radio Vaticana

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Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG, è stato intervista da Eliana Astorri per “Radio Vaticana” il giorno 23 novembre, alla vigilia della sua partenza per la conferenza internazionale di Parigi su Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism, organizzata dal Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa. L’audio dell’intervista può essere ascoltato cliccando qui. Di seguito proponiamo la trascrizione integrale.

Prima di introdurre il convegno, ci può presentare la rivista dell’IsAG?

Si tratta di una rivista di studi geopolitici giunta ormai al suo ottavo anno di vita. È una rivista che si è accreditata nell’ambiente accademico e scientifico ma anche in quello giornalistico e della comunicazione in senso più ampio. Tratta i temi della geopolitica attuale ed offre analisi e prospettive di medio e lungo termine. In particolare focalizza la sua attenzione nella massa continentale eurasiatica e da un anno a questa parte, sulla base degli studi e del gruppo di lavoro creatosi attorno alla rivista, è stato fondato un istituto di studi geopolitici, l’IsAG.

Domani a Parigi la conferenza internazionale sulle questioni legate al giornalismo internazionale contemporaneo: qual è lo scopo di questo incontro?

Lo scopo di questo incontro è sostanzialmente di trovare dei punti di convergenza tra gli operatori della comunicazione russi e dell’Unione Europea. In particolare saranno dibattute alcune tematiche, che sono quelle relative all’interesse nazionale ed al giornalismo che si occupa delle relazioni internazionali. Poi saranno dibattuti temi legati alla deontologia, e dunque al comportamento etico dei giornalisti e dei loro editori. In particolare ci si soffermerà sull’influenza dei mass media sulla formazione della cosiddetta opinione pubblica. Questo è un tema abbastanza delicato se messo in rapporto alle relazioni internazionali: l’influenza del giornalismo è spesso coerente con alcune dottrine geopolitiche. Infatti si parla spesso del giornalismo come strumento del soft power.

Globalizzazione e i moderni strumenti di comunicazione, dal web ai social network, hanno cambiato o stanno cambiando il modo di fare informazione?

Certamente: l’hanno cambiato e c’è un’evoluzione in itinere, continua. C’è un effetto massiccio dell’informazione ed un ventaglio d’informazioni veramente enorme al quale ancora non siamo abituati. Quindi occorrerà del tempo, anche da parte di chi ascolta, legge e s’informa, per metabolizzare e filtrare in materia opportuna le informazioni erogate dai mass media.

Mentre i classici mezzi d’informazione (stampa, televisione) che ruolo hanno oggi nelle relazioni internazionali?

I mezzi tradizionali hanno ancora una grande forza ed incidono moltissimo nei comportamenti dei governi. Basta pensare ad esempio ad alcuni importanti giornali e riviste d’informazione economica, che riescono in pratica ad alzare o abbassare il ranking di alcune nazioni ed influenzano anche i comportamenti dei governi. Sono quei giornali che vengono letti da imprenditori, da politici, da intellettuali di alto rilievo e che quindi influenzano, in seconda battuta, l’opinione pubblica.

Quale sarà il tema del suo intervento domani alla conferenza?

Io mi occuperò proprio della relazione tra mass media e soft power: vale a dire dell’utilizzo e strumentalizzazione dell’informazione, e quindi dei mezzi d’informazione, ai fini d’alcune prassi geopolitiche. In particolare m’occuperò di come certa stampa cerchi d’influenzare ed orientare l’opinione pubblica.


USA, Cina e rivolte arabe: F. Brunello Zanitti intervistato da Radio Italia IRIB

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Francesco Brunello Zanitti, ricercatore dell’IsAG, è stato intervistato “Radio Italia” dell’IRIB a proposito dell’intervento NATO in Libia. Brunello Zanitti, dottore in Storia della società e della cultura contemporanea all’Università di Trieste, è autore del recente libro Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto (IsAG / All’insegna del Veltro, Roma-Parma 2011).
Per la fonte originale dell’intervista cliccare qui. Seguono l’audio e la trascrizione dell’intervista.

 

Dott. Brunello Zanitti nel suo ultimo articolo lei afferma che l’intervento della NATO in Libia nel contesto della “primavera araba” dimostra ancora una volta come l’Occidente non abbia abbandonato i suoi disegni egemonici. Si potrebbe spiegare meglio?

Ritengo che nel contesto della cosiddetta “primavera araba” le diverse potenze, soprattutto gli Stati Uniti, hanno l’interesse ad indirizzare queste rivolte secondo i propri disegni strategici. Le sommosse hanno senza dubbio un carattere di malcontento popolare molto importante dovuto a differenti cause. Ma naturalmente gli Stati Uniti, che hanno interessi globali, e i paesi della NATO hanno come obiettivo l’incanalare secondo le proprie volontà quello che sarà il futuro della Libia. In questa fase storica esiste una forte competizione a livello globale, soprattutto fra la Cina e gli Stati Uniti. Gli eventi che si sono verificati negli ultimi mesi nel continente africano dimostrano questa forte competizione tra le due potenze. Può essere una lettura di quello che accaduto in Libia, senza comunque dimenticare che ci sono altri interessi regionali (Arabia Saudita, Turchia, Iran) nell’indirizzare queste rivolte per aumentare la propria influenza nazionale. Dunque, penso che uno degli obiettivi degli Stati Uniti e dell’Occidente sia quello di favorire la nascita di un governo che poi sia legato strettamente al mondo occidentale.

Si potrebbe spiegare meglio sul concetto di colonizzare l’Africa per colpire la Cina? Qual è il motivo di questa sua opinione?

Si possono fornire diversi esempi. Gli Stati Uniti hanno favorito la divisione del Sudan, la Francia è intervenuta in Costa d’Avorio. Poche settimane fa gli Stati Uniti hanno inviato delle truppe in Uganda, ci sono bombardamenti quotidiani in Somalia. Questi interventi molto forti dell’Occidente possono essere letti come una sorta d’azione per prevenire la presenza economica della Cina. Pechino ha interessi molto forti in Africa; tutt’ora anche in Libia. L’Occidente per prevenire questa maggiore influenza cinese deve in certo senso cercare di ostacolarla.

Uzbekistan e Italia: i rapporti economici e culturali (Modena)

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Si è tenuta a Modena sabato 5 novembre 2011 alle ore 15.30, presso la Sala conferenze della Circoscrizione Centro Storico di Piazzale Redecocca 1, la conferenza “Uzbekistan e Italia: i rapporti economici e culturali”.

Sono intervenuti come relatori: S.E. Jakhongir Ganiev (ambasciatore della Repubblica di Uzbekistan in Italia), Gairat Juldashev (secondo segretario dell’Ambasciata della Repubblica di Uzbekistan in Italia), Tiberio Graziani (presidente dell’IsAG), Gian Paolo Caselli (docente all’Università degli Studi di Modena) ed un rappresentante di ITER Viaggi Modena (Francorosso Tour Operator).

L’organizzazione è stata a cura dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) con la collaborazione di “Viaggiatori fuori tema” ed il patrocinio del Comune di Modena e dell’Università degli Studi di Modena.

D. Scalea all’incontro bolognese “Rivolte arabe: la primavera non arriva”

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Si è tenuta a Bologna mercoledì 9 novembre 2011 alle ore 20.30, presso il centro sociale “Giorgio Costa” di Via Azzo Gardino 48, la conferenza “Rivolte arabe: la primavera non arriva”.

Sono intervenuti come relatori: Daniele Scalea (co-autore di Capire le rivolte arabe e segretario scientifico dell’IsAG) e Joe Fallisi (attivista, testimone dell’aggressione alla Libia).

L’organizzazione è stata a cura dell’associazione “Eur-Eka“.

Daniele Scalea ha incentrato il suo intervento sul ruolo dei media nelle rivolte arabe. Accompagnando le sue parole con numerosi filmati ed immagini, ha dimostrato come i media abbiano sovente manipolato i fatti, dando ampio risalto a certe notizie (non sempre adeguatamente verificata) e celandone altre non meno significative, e spesso più verificabili.

Scalea ha dunque concluso che i media seguono una loro agenda politica, dettata dagli editori degli stessi, che spesso sono degli Stati implicati in prima persona nei giochi geopolitici che i giornalisti loro dipendenti dovrebbero raccontare in maniera oggettiva e neutrale.

A dx: Daniele Scalea
Il pubblico in sala

USA e Israele: F. Brunello Zanitti intervistato da “Radio Onde Furlane”

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Francesco Brunello Zanitti, ricercatore dell’IsAG, è stato intervistato lo scorso 11 novembre da Mauro Missana, direttore di “Radio Onde Furlane”, a proposito del suo libro Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto. “Radio Onde Furlane” è una testata giornalistica indipendente con sede a Udine che da trent’anni lavora ogni giorno a favore della tutela e della conoscenza della lingua friulana e per un’informazione libera e indipendente. La maggior parte delle trasmissioni sono in friulano. Oltre ad essere ascoltata in tutta la regione Friuli-Venezia Giulia, “Radio Onde Furlane” raggiunge anche i numerosi emigranti friulani presenti in Argentina, Canada e Australia, grazie ai collegamenti streaming presenti sul sito ufficiale dell’emittente.
Seguono l’audio e la trascrizione dell’intervista.

 
Prima parte:

Seconda parte:

 
I Kosovni Odpadki (gruppo musicale di Gorizia; i loro testi e suoni hanno la particolarità di rappresentare le diverse comunità linguistiche regionali: italiana, friulana e slovena n.d.r.) con “Yerushaliam”, un pezzo che si presta molto bene alla presentazione del libro che abbiamo oggi in analisi. E’ di un giovane storico che si chiama Francesco Brunello Zanitti. “Progetti di egemonia”, un libro molto attuale anche se è uscito qualche mese fa. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto. Il periodo storico di riferimento è rappresentato in particolare dagli anni ’70, decisivi per capire a livello geopolitico quello che sta succedendo nel presente, anche le piccole rivoluzioni. E’ tutto strettamente collegato. Tutto quello che succede nel mondo lo vediamo attraverso la televisione, ma Francesco Brunello Zanitti ha cercato di spiegarlo in questo libro, edito dalle Edizioni all’Insegna del Veltro. Prima di tutto partiamo dall’interesse per la storia, perché tu sei uno storico che fa parte di un istituto che pubblica una rivista, “Eurasia”. Spiegaci meglio.

Il volume “Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto” è edito dalle Edizioni all’Insegna del Veltro, come ricordato giustamente dal direttore Missana, per conto dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie, un’associazione culturale che ha come obiettivo la promozione della conoscenza, dello studio e dell’applicazione della geopolitica. In particolare, io sono ricercatore per l’area Asia Meridionale, contribuendo, inoltre, alla rivista di questo istituto, “Eurasia”. La mia ricerca si concentra soprattutto su questioni legate all’India, al Pakistan e all’Afghanistan. In questo libro ho invece considerato un altro aspetto della politica internazionale e della geopolitica.

Ecco, una questione importante di questo libro che mi ha stupito è che i neoconservatori statunitensi non sono sorti strettamente “a destra” ma sono nati “a sinistra”, delusi dalla cosiddetta “sinistra americana”. Parlare di “sinistra e destra americana” è difficile nel senso italiano. Il fatto è che il movimento sorse da esponenti delusi, ad esempio economisti, alcuni di origini ebraica. Allo stesso tempo esiste una sorta di delusione anche nello Stato israeliano per la classe dirigente politica. Come nascono il neoconservatorismo statunitense e il neorevisionismo israeliano? E quando si possono trovare i maggiori punti di contatto e perché?

Innanzitutto bisogna tener presente che tra Stati Uniti e Israele c’è sempre stata una speciale relazione. Neo-conservatorismo statunitense e neo-revisionismo israeliano hanno enfatizzato questa relazione molto importante. Il neoconservatorismo nasce, come giustamente ricordava, da un periodo di crisi per gli Stati Uniti; sorse dal Partito Democratico perché si era in una situazione in cui gli Stati Uniti si trovavano in una fase di crisi morale dopo la sconfitta in Vietnam. Esisteva in un certo senso la volontà di riprendere per il paese un ruolo di primo piano a livello globale e allo stesso tempo si vedeva in Israele l’unico garante della democrazia nel Vicino Oriente. La speciale relazione tra Stati Uniti e Israele è stata enfatizzata con l’ascesa al potere del gruppo neoconservatore, durante la presidenza di Ronald Reagan, ma successivamente soprattutto con la presidenza di George W. Bush. Ho cercato di analizzare le origini storiche e ideologiche di questi due movimenti che sono molto diverse. Analizzando il pensiero di questi due gruppi politici e gli scritti si possono trovare numerose analogie; a questo proposito ho utilizzato come fonti gli articoli pubblicati su riviste specializzate, ad esempio “Commentary”, la rivista principale dei neoconservatori.

Ho notato che hai utilizzato molto anche Internet.

Sì, su Internet si possono trovare diverse fonti per comprendere il pensiero dei due gruppi. Come dicevo, si trovano degli interessanti punti in comune. Per esempio, un forte nazionalismo. Come si può vedere dagli eventi politici avvenuti nel corso degli ultimi trent’anni, molto più marcato nella destra israeliana rispetto al neoconservatorismo. Poi ci sono le tendenze espansionistiche e militariste connesse a un’idea di egemonia regionale nel Vicino Oriente per Israele e un’egemonia mondiale per quanto riguarda gli Stati Uniti. C’è l’idea poi di considerare le proprie nazioni come eccezionali e assolutamente necessarie.

Questo è un punto in comune molto interessante.

Sì, è un punto in comune molto importante. L’eccezionalismo statunitense è sempre esistito fin dal XIX secolo e in un certo senso fin dalla nascita degli Stati Uniti, i quali sorsero in contrapposizione al Vecchio Continente. Questo eccezionalismo però a seconda dei periodici storici è prevalso o meno, ha avuto una maggiore forza o meno. Con i neoconservatori l’eccezionalismo raggiunge forse il livello più alto.

Ma questo ha provocato una sorta d’isolamento. Si legge anche nel tuo libro questa idea di credersi i migliori. Ci sono diversi articoli all’interno di “Progetti di egemonia” che sono chiari quando presentano l’eccezionalità statunitense e la debolezza, ad esempio, dell’Europa. Di eccezionalità a livello politico e militare. In questo saggio si parla spesso di utilizzare la forza militare per risolvere precise questioni, quasi chirurgicamente. Da quello che è scritto nel tuo volume si comprende chiaramente quale sia stata l’escalation che c’è stata negli ultimi dieci anni se si pensa all’Afghanistan, all’Iraq. Si capisce anche questa spinta a riguardo dell’Iran e della Siria. Si capisce perché si sono verificate alcune rivoluzioni, tanto legate a questo dualismo Israele-Stati Uniti che non si capisce alla fine se vi è solamente una grande alleanza oppure quanto prevalga l’interesse nazionale.

In un certo senso l’eccezionalismo, soprattutto secondo la mia opinione nel caso israeliano, comporta una sorta d’isolamento a livello internazionale. Se si pensa, infatti, alle critiche che sono state fatte nei confronti dell’amministrazione Bush dopo l’intervento in Iraq, oppure alla percezione dell’America nel mondo musulmano dopo lo stesso intervento in Iraq. Questo eccezionalismo e il voler intervenire ad ogni costo in territori del mondo per i propri interessi con allo stesso tempo l’idea comunque di voler esportare un determinato modello culturale e un sistema di valori, tutto ciò comporta alla fine anche un isolamento di Stati Uniti e Israele a causa dell’adozione di politiche unilaterali.
Per quanto riguarda il caso siriano, iraniano e le rivolte arabe degli ultimi mesi sono interessanti da notare due punti fondamentali. Innanzitutto che nonostante l’amministrazione Obama non abbia legami con il neo-conservatorismo, in un certo senso c’è ancora latente questa idea di voler intervenire in determinate aree per difendere degli interessi geopolitici molto importanti. Per quanto riguarda Israele non è corretto affermare che lo Stato ebraico difenda in ogni caso l’operato statunitense, per quanto concerne, ad esempio, le rivolte arabe. Israele è molto allarmata per quello che è accaduto in Egitto o in altri territori del mondo arabo perché si è perso quello status quo che in un certo senso favoriva gli interessi strategici israeliani.
Per quanto concerne la bomba atomica iraniana è un altro discorso.

Si discuteva a suo tempo anche dell’Iraq. Io non discuto nulla, non è comunque che mi fidi a livello personale dell’Iran e della sua politica interna. Però stranamente…

Essendo comunque uno Stato sovrano alla fine la politica autonoma statale non si può decidere dall’esterno. Si può legittimamente avere un’opinione contraria al nucleare civile, però quando uno Stato autonomamente decide la sua politica interna diventa difficile decidere per questo Stato cosa è opportuno fare.
Più che un problema militare (è improbabile che l’Iran attacchi lsraele con un bombardamento atomico poiché si troverebbe la risposta immediata e molto più forte dello Stato ebraico e degli Stati Uniti) si tratta, secondo me, di un problema geopolitico. Un’eventuale bomba atomica iraniana scatenerebbe una competizione regionale molto forte che è già evidente.

C’è il Pakistan ad esempio.

C’è il Pakistan, ma soprattutto l’Arabia Saudita, la Turchia e naturalmente Israele. E’ molto forte la competizione tra mondo sunnita guidato dall’Arabia Saudita e universo sciita guidato dall’Iran. Eventualmente una bomba atomica iraniana scatenerebbe una corsa al nucleare nella regione, poiché l’Iran, unitamente ad avere un potere deterrente nei confronti degli Stati Uniti e d’Israele, aumenterebbe la propria influenza regionale e questo non va bene per Israele, ma soprattutto per l’Arabia Saudita e i paesi arabi delle vicinanze.

Che bello che era il mondo una volta, quando c’erano solamente l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti che avevano il nucleare.

La situazione adesso è più complessa. Se si pensa, dal Nord Africa al Vicino, Medio Oriente e Asia Meridionale, vi è tutta una zona dove c’è una forte competizione tra diversi attori regionali (Iran, Arabia Saudita, Turchia, Israele, Egitto, India, Pakistan n.d.r.), ma anche globali (Stati Uniti, Cina).

C’è questo competitore nuovo che è la Cina, anche a livello militare non solo dal punto di vista economico. Quindi questo neoconservatorismo si è sviluppato soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino. Noi eravamo a quell’epoca tutti contenti, vedevamo queste persone che saltavano sul muro che divideva Berlino. Ci sono anche dei film come “Goodbye Lenin” che ci spiegano tante dinamiche di come si vivevano le cose dall’altra parte. Noi ne sapevamo poco, loro non sapevano nulla di quello che succedeva a noi. Il neorevisionismo israeliano e il neoconservatorismo americano nascono quando crolla il muro, cercando di capire chi deve avere la maggiore influenza.

In realtà no, sono nati alcuni decenni prima. Il neoconservatorismo nasce negli anni ’70, mentre il neorevisionismo si collega al sionismo revisionista di Jabotinsky che è addirittura degli anni ’20.

Jabotinsky che era nato a Odessa.

Sì, Jabotinsky era di Odessa e aveva come obiettivo un sionismo molto più radicale rispetto al sionismo originario di Herzl. Aveva una percezione di una costante lotta tra ebrei e arabi.

Militarista in pratica.

Sì, sempre una politica aggressiva. Il neorevisionismo è diverso dal revisionismo originario perché, come ricordo in “Progetti di egemonia”, esiste il fattore molto importante rappresentato dall’Olocausto. Questo evento storico ha segnato una sorta di spartiacque per la comunità ebraica dell’Europa orientale, ma in generale per gli ebrei e per il futuro Stato d’Israele. Il neorevisionismo è molto più radicale del revisionismo perché osserva una sorta d’incapacità da parte del resto del mondo di accettare l’esistenza dell’ebreo in quanto tale. E l’Olocausto ne è l’esemplificazione. C’è dunque un ideale fortemente pessimista nei confronti del resto del mondo.

Questo aspetto l’ho notato, leggendo il libro.

Un sentimento di pessimismo e avversione non solo verso gli arabi, ma anche verso chiunque critichi la politica estera dello Stato. In ogni caso il neorevisionismo individuava degli attacchi contro l’ebreo in quanto tale.

Quello che emerge a livello politico dal tuo libro è che una critica ad Israele è connessa all’attacco totale verso gli ebrei. Ma questo l’ho notato anche in certi programmi televisivi italiani, dove erano presenti dei giornalisti di origine ebraica che parlavano degli israeliani utilizzando il “noi”. Non si sentivano più cittadini italiani, ma quasi totalmente israeliani. Insomma il neorevisionismo interpreta totalmente questa separazione. E’ un aspetto molto interessante, anche per comprendere come opera. Il tutto è nato anche in questo caso negli anni ’70 che sono stati decisivi. Perché prima c’erano stati i laburisti per anni.

Sì, prima c’erano i laburisti al potere. Il 1977 è la data di svolta quando il Likud vinse le elezioni e inizia il programma vero e proprio del neorevisionismo, in un certo senso espansionista. Se si pensa alla guerra in Libano degli anni ’80, l’attacco preventivo nei confronti dell’Iraq del 1981 al reattore nucleare Osiraq. Quello che oggi il governo Netanyahu vorrebbe fare nei confronti dell’Iran, un attacco preventivo contro l’ipotetico programma nucleare iraniano è collegato a questo impianto ideologico connesso a un intento egemonico, una visione fortemente pessimista nei confronti degli altri e un’idea della continua presenza di una minaccia nei confronti d’Israele.

Tu hai spiegato molto bene come nasce questo movimento, soprattutto con i collegamenti con l’Olocausto. Il quale non è stato completamente accettato da una parte della popolazione europea. Si parla anche di revisionismo a proposito di questo e diventa spesso delicato discutere di questa tematica che hai citato.

In “Progetti di egemonia” considero l’utilizzo che viene fatto di questo genocidio, l’utilizzo politico. Non si discute l’evento storico, secondo me non si può discutere l’Olocausto.

Assolutamente.

Il problema è quando questo evento viene utilizzato per fini politici. Parlo alla fine di una sorta di banalizzazione: sia i neoconservatori sia i neorevisionisti parlano delle minacce contemporanee come se fossero una ripetizione dell’Olocausto, come le minacce degli anni ’30, equiparate al 1938; lo smembramento della Cecoslovacchia paragonato a un possibile smembramento d’Israele. Questo non è il modo corretto di fare storia. Ogni evento storico ha le sue circostanze e il suo particolare contesto.

Ti faccio una domanda a freddo. Quant’è paranoia e quanto calcolo politico?

Secondo me entrambi. Per un popolo che si sente minacciato è comprensibile una sorta di paura nei confronti dell’altro. Non bisogna dimenticare che esistono alcune frange all’interno dei paesi arabi che hanno come obiettivo la distruzione d’Israele. Dall’altra parte ci sono però anche calcoli politici. Secondo me esistono entrambi gli aspetti.

E anche economici. Dunque, in chiusura volevo considerare un altro aspetto. La tua ricerca si concentra molto sull’India e soprattutto su questioni geopolitiche riguardanti l’Asia Meridionale. Ci sono diversi articoli a questo proposito su internet. Tutto ciò come si collega a “Progetti di egemonia”? Cosa sta succedendo nel mondo e come spieghi tutti questi cambiamenti di potere, queste micro-rivoluzioni che isolate non vogliono dire quasi nulla? La popolazione si erge contro i propri governanti, ma in certi casi ciò fa comodo sia agli Stati Uniti che a Israele. Ma a livello globale cosa accade? Mi sembra che stiano cambiando i centri di potere ed è comprensibile questa paura.

C’è un impero che è in declino. Gli Stati Uniti hanno sempre avuto l’idea di essere un impero a livello globale. Si sta spostando il centro di potere verso Oriente, soprattutto verso la Cina, in parte minore verso l’India che è comunque lontana dal livello raggiunto da Pechino.

La cosiddetta Cindia, come la chiamano.

Certo. La Cina e l’India non hanno ancora il potere militare che hanno gli Stati Uniti, però si sta registrando questo spostamento di potere dovuto soprattutto a motivi di carattere economico. In questa fase c’è una sorta di competizione molto forte a livello globale per chi saranno le guide e le superpotenze del futuro. Stiamo attraversando una fase in cui ci stiamo spostando da un modello unipolare a guida statunitense a un modello multipolare. Questo testimonia come le teorie della “fine della storia” d’inizio anni ’90 dopo il crollo del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica siano totalmente sbagliate perché stiamo attraversando una fase in cui emergerà una nuova competizione per avere un ruolo egemonico a livello globale.

Si dice che i tedeschi hanno perso la Seconda guerra mondiale perché avevano problemi energetici. Per esempio l’ex Jugoslavia era il corridoio di collegamento con la Romania per il petrolio. Nessuno lo ha mai considerato. I tedeschi hanno studiato diversi tipi di approvigionamento energetico alternativi già durante il periodo della Seconda guerra mondiale perché avevano problemi energetici. Quanto conterà nel futuro questa lotta per l’energia e dove si sposteranno questi equilibri?

Le lotte per l’energia saranno molto forti, ad esempio anche il caso iraniano è collegato alla competizione per il controllo dei corridoi energetici, per il petrolio e il gas naturale. Se si pensa anche all’Afghanistan e al Pakistan, si può affermare che saranno due territori attraversati da una competizione molto forte per il controllo delle rotte energetiche. L’Afghanistan e il Pakistan sono due paesi che si trovano in territori molto importanti dal punto di vista geostrategico perché sono punti di collegamento tra le risorse presenti in Asia Centrale e l’Asia Meridionale, verso l’India. Oppure verso il Vicino Oriente. Dunque si possono fornire tanti esempi di questa continua competizione, in ogni caso penso che lotta sarà soprattutto per l’area che va dal Nord Africa al Vicino Oriente fino all’Asia Centrale e Meridionale. Un ipotetico conflitto ad esempio contro l’Iran potrebbe scatenare a livello regionale un’instabilità che è già forte, ma potrebbero esserci delle problematiche ancora più significative.

Dunque ricordo che lo stesso Francesco Brunello Zanitti, lo storico che abbiamo ospitato, ha anche un blog.

Sì, un sito da dove è possibile ordinare anche il libro, http://progettiegemonia.blogspot.com/.

“Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto” di Francesco Brunello Zanitti. Abbiamo parlato di geopolitica. Volevi aggiungere altro?

Sì, vorrei ricordare che l’Isag ha pubblicato altri due interessanti volumi per comprendere la geopolitica contemporanea. “Capire le rivolte arabe” del segretario scientifico dell’IsAG e redattore di “Eurasia” Daniele Scalea e del ricercatore, sempre dell’IsAG, Pietro Longo. Questo è uno studio molto importante per comprendere appunto le contemporanee rivolte arabe e avere un chiaro quadro della situazione. Un altro libro appena uscito è “Il risveglio del drago” del ricercatore e saggista Diego Angelo Bertozzi e del giornalista Andrea Fais, un libro molto importante per comprendere l’ascesa politica e militare della Cina.

Ci sono dunque altre questioni da approfondire per capire cosa sta succedendo nel mondo. E’ tutto collegato. L’Isag è un istituto di studi geopolitici di Roma con una schiera di ricercatori e anche tu collabori con “Eurasia” e si possono trovare diversi articoli sul web. E’ curioso che su Internet ci siano due persone con lo stesso nome: uno storico e un dentista. Grazie a Francesco Brunello Zanitti, avremo altre occasioni per ospitarti nuovamente.

Grazie a “Radio Onde Furlane” e a Mauro Missana per l’ospitalità.

Trinitapoli: La prospettiva eurasiatica e le rivolte arabe

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Si è svolta a Trinitapoli (BAT) sabato 19 novembre 2011 alle ore 19.30, presso il Palazzo Piscitelli, la conferenza “La prospettiva eurasiatica e le rivolte arabe”, tenuta dal presidente dell’IsAG Tiberio Graziani su invito dia Maria Antonietta Piscitelli.
Di seguito la cronaca dell’evento comparsa su “Stampa Sud

 
Tiberio Graziani e Maria Antonietta PiscitelliSTRAORDINARIO SUCCESSO DEL SEMINARIO DI GEOPOLITICA da “Stampa Sud”

Oltre novanta persone tra accademici, imprenditori, professionisti, giornalisti e studenti universitari, sabato scorso hanno preso parte al convegno di geopolitica intitolato “La prospettiva Eurasiatica. Le rivolte arabe”, presentato dal Prof. Tiberio Graziani direttore di “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici” e presidente dell’“IsAG – Istituto di Alti Studi di Geopolitica e Scienze Ausiliarie”. L’evento, che ha avuto luogo in un palazzo antico di Trinitapoli, su invito della padrona di casa Maria Antonietta Piscitelli, organizzatrice del seminario, nonché giornalista ed esperta di cerimoniale e protocollo nazionale e internazionale, ha riscosso particolare successo sia per lo spessore e l’attualità dei contenuti sia per l’atmosfera di convivialità che hanno favorito il dibattito tra relatore e partecipanti. Tiberio Graziani, è relatore abituale ai convegni internazionali del Forum Pubblico Mondiale – Dialogo di Civiltà (WPF – Dialogue of Civilizations). Ha insegnato per anni nelle università di Perugia e l’Aquila. Ha tenuto corsi per l’ICE (Istituto per il Commercio Estero) in varie nazioni, tra cui Uzbekistan, Cina, India, Libia, Argentina. Dopo un breve intervento di saluto ai partecipanti della dott.ssa Piscitelli, il presidente Graziani ha inquadrato geopoliticamente i recenti fenomeni di rivolta e di conflitti in Nord Africa e Vicino e Medio Oriente – quell’area che gli Statunitensi hanno ribattezzato “Grande Medio Oriente”. Si tratta, secondo Graziani, di una fascia frammentata e vulnerabile attraverso cui la potenza, principalmente aero-marittima, degli USA cerca di penetrare in Il pubblico in salaprofondità nel continente eurasiatico. Alla luce di questo prisma geopolitico, si sono analizzati i casi specifici della Libia, della Tunisia, dell’Egitto, della Siria, dell’Iraq e dell’Iran. Il seminario si è concluso con piena soddisfazione dei presenti, con una cena a buffet, ricca di sapori e colori invitanti, offerta dall’organizzatrice dell’evento. I selezionatissimi partecipanti, prima del commiato si sono congratulati con Tiberio Graziani per l’importanza dei temi trattati, e con la padrona di casa Maria Antonietta Piscitelli per aver saputo coniugare cultura e gastronomia, in un ambiente privato, elegantemente curato, che non aveva nulla da invidiare alle sedi istituzionali dove di prassi hanno luogo eventi di tale spessore intellettuale.

All’Università di Enna: Difesa, sicurezza e diritto internazionale nel Mediterraneo (I semestre)

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Si è svolto a Enna presso la locale università, nel mese di novembre 2011, la prima parte del ciclo seminariale Difesa, sicurezza e diritto internazionale nel Mediterraneo.

Le prime cinque lezioni del ciclo hanno riguardato:

La prospettiva eurasiatica e il Mediterraneo (docente: Tiberio Graziani, data: 7 novembre),

La cerniera mediterraneo-centrasiatica (docente: Tiberio Graziani, data: 8 novembre),

La guerra di Libia e il diritto internazionale (docente: Paolo Bargiacchi, data: 9 novembre),

Introduzione al diritto islamico e dei paesi musulmani (docente: Pietro Longo, data: 16 novembre),

L’emergenza Lampedusa tra diritto e politica europea (docente: Paolo Bargiacchi, data: 23 novembre).

Il ciclo seminariale è organizzato dalla Cattedra di Diritto Internazionale della Facoltà di Scienze economiche e giuridiche dell’Università “Kore” di Enna e dall’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).

Clicca qui per la brochure di presentazione (in pdf)

La crisi del debito italiano: D. Scalea a Radio Italia IRIB

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Daniele Scalea, segretario scientifico dell’IsAG, è stato intervistato da Radio Italia dell’IRIB a proposito della crisi del debito italiano. L’articolo originale si può leggere cliccando qui. Di seguito la registrazione audio e la trascrizione.

 

Il presidente Giorgio Napolitano ha dato l’incarico di formare il nuovo governo al signor Mario Monti. Secondo molti analisti indipendenti italiani, Monti sarebbe l’uomo di fiducia della BCE imposto all’Italia. Qual è il suo parere in merito?

Questa è l’opinione non solo di commentatori italiani, ma anche di molti stranieri, ed è un’opinione che personalmente condivido. Quello che è successo in Italia è accaduto, esattamente negli stessi giorni, anche in Grecia. Un problema legato al debito nazionale rischiava di travolgere altre nazioni, anche grandi potenze come Francia e Germania, esposte tramite le loro banche al debito italiano e greco. Nazioni più forti, con maggiori leve politico-finanziarie, sono riuscite a commissariare i paesi minori, l’Italia e la Grecia: hanno imposto governi cosiddetti “tecnici”, la cui agenda – al di là dei proclami ufficiali – è chiara, e consiste nel garantire la solvibilità del debito pubblico. Garantire, dunque il trasferimento di ricchezza dall’Italia e dalla Grecia verso i creditori: banche interne a questi due paesi (anche moltissimi piccoli risparmiatori possiedono buoni del Tesoro in Italia, ma guardando all’aggregato del debito pubblico la quota da loro detenuta rappresenta una percentuale piuttosto bassa), ma soprattutto creditori esteri. Dunque, ricapitolando: questi governi “tecnici” devono garantire il trasferimento all’estero di ricchezze, non provenienti dalle casse pubbliche, che ormai sono vuote, ma dalla società, dai privati, i cui risparmi sono prelevati tramite tassazione e conservati per il fine ultimo (il pagamento del debito) tagliando i servizi sociali.

Alcuni leggono gli ultimi cambiamenti a livello di governo come una “offensiva esterna” contro l’Italia. Cosa ne pensa?

Come accennavo l’Italia, pur essendo fortemente indebitata a livello pubblico (statale), in realtà ha un bassissimo debito privato. Se si guardasse al debito aggregato (privato più pubblico) si noterebbe che in Europa, tra i grandi paesi, solo la Germania è messa meglio dell’Italia. L’Italia possiede un grande bacino di risparmi privati che, in una fase di crisi mondiale di liquidità, fanno gola a molti. Si è perciò usato il debito pubblico come grimaldello per accedere a queste riserve finanziarie, detenute dalle famiglie italiane, che saranno immesse nel sistema bancario internazionale (anche italiano, quindi, ma principalmente straniero). L’Italia, si può dire, è rimasta vittima della sua debolezza politica: la sua forza finanziaria privata sarà saccheggiata, impoverita, sfruttando la fragilità e la ricattabilità dello Stato.

Alcuni puntano il dito contro il legame di Monti con la banca Goldman Sachs. Perché?

Perché c’è un evidente caso di conflitto d’interessi. In Italia siamo abituati a convivere col conflitto d’interessi, uno dei temi predominanti a livello politico nel periodo di Berlusconi, dunque negli ultimi vent’anni circa. Il problema si ripropone, anche se per il momento è meno pubblicizzato. Abbiamo il nostro nuovo presidente del Consiglio Monti che è advisor di Goldman Sachs. Secondo il quotidiano “Milano Finanza”, ci sarebbero forti sospetti che la speculazione degli ultimi giorni, che ha fatto schizzare in alto lo spread BTP-Bund portando alla caduta del governo Berlusconi, sarebbe stata alimentata proprio da Goldman Sachs. Referente di Monti alla BCE è un altro ex alto dirigente di Goldman Sachs, Mario Draghi: secondo quanto scritto dal quotidiano “Libero”, in quegli stessi ultimi giorni di governo Berlusconi Draghi avrebbe tagliato gli acquisti di BTP da parte della BCE, lasciando lo spread alzarsi fuori controllo. Questo caso di conflitto d’interessi e di manovre poco chiare meriterebbe senz’altro d’essere approfondito, per capire se ci sia stata una collusione finalizzata a forzare il cambiamento di governo in Italia, e se in futuro saranno fatti dei favori a questo istituto finanziario, o se i governanti saranno integerrimi ed ignoreranno il loro legame personale con Goldman Sachs.

Secondo lei cosa dovrebbero ancora aspettarsi i cittadini italiani?

L’essenza dell’agenda politica, al di là di ciò che viene proclamato pubblicamente, credo sia quella che ho più o meno già descritto: garantire la solvibilità dell’Italia tramite un massiccio trasferimento di ricchezza dai risparmiatori al sistema bancario internazionale, passando per lo Stato indebitato, inasprendo la pressione fiscale e tagliando i servizi a famiglie ed imprese. Ciò, evidentemente, avrà delle conseguenze sull’economia italiana. Misure deflattive, di rigore fiscale – diciamo pure depressive – in una fase di crisi economica internazionale non faranno che acuire la tendenza negativa. Se, come sembra, si diminuiranno i salari, si alzerà l’IVA e s’inasprirà la pressione fiscale, i consumi scenderanno. E’ vero che l’Italia è orientata principalmente verso l’esportazione, e bisognerà vedere se il taglio dei costi di produzione tramite la diminuzione dei salari, dando una spinta alle vendite all’estero, riuscirà a compensare il calo delle vendite all’interno. Ma anche se ciò avvenisse, lo si sarebbe ottenuto a spese del tenore di vita di gran parte della popolazione italiana. Nello scenario peggiore avremo una stagnazione o peggio recessione economica. La Grecia, che prima di noi si è trovata avviluppata dalla crisi del debito ed ha adottato la ricetta del rigore imposta dall’UE e dalla BCE, già da alcuni anni è in pesante recessione. Il rischio è dunque che l’indebitamento statale si ripercuota sull’economia reale italiana, devitalizzandola e rigettandola nella stagnazione/recessione da cui stava faticosamente uscendo.


L’IsAG all’VIII Forum di Dialogo Italo-Turco a Istanbul

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Si è tenuta a Istanbul, il 24 e 25 novembre, l’ottava edizione del Forum di Dialogo Italo-Turco, presso l’Hotel Hilton.
Hanno partecipato, come membri della delegazione italiana guidata dal ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, anche i rappresentanti dell’IsAG Aldo Braccio, Pietro Longo e Daniele Scalea.
L’organizzazione è stata a cura del SAM e di Unicredit, con l’alto patrocinio dei ministeri degli Affari Esteri di Italia e Turchia.
DI seguito, il testo dell’intervento pronunciato da Aldo Braccio durante la tavola rotonda a porte chiuse, che ha visto confrontarsi le delegazioni d’esperti italiani e turchi sul problema dell’ingresso nell’UE della Turchia.

 
L’INTERVENTO di Aldo Braccio

Grazie, Presidente.

Indubbiamente rafforzare le relazioni fra Italia e Turchia – fra governi ed enti locali, fra corpi intermedi e anche fra operatori economici – rappresenta anche un positivo passaggio nel miglioramento dei rapporti fra Europa e Turchia.

Queste relazioni devono necessariamente tener conto di uno scenario internazionale che sta cambiando anche al di là delle “primavere arabe”, fenomeno questo che è ancora abbastanza incerto nei suoi esiti e nel suo significato. Assistiamo infatti al tramonto progressivo ma inesorabile di un sistema mondiale unipolare a guida statunitense, cui va sostituendosi un mondo multipolare più aperto ed equilibrato, basato su grandi aggregazioni di forze di carattere regionale o continentale.

Aldo Braccio (a sx) e Pietro Longo (a dx) prima dell'apertura del ForumIn questo senso il sistema economico e concettuale, culturale, della globalizzazione è entrato in crisi e mostra tutti i suoi limiti : una crisi che sta attraversando – come tutti possono constatare – i Paesi del cosiddetto Occidente e sta minacciando di spingere nel baratro anche altre parti del mondo, distruggendo l’economia produttiva a solo beneficio di una finanza incontrollata e speculatrice.

D’altra parte, come giustamente osserva il ministro degli Esteri Davutoğlu in Stratejik Derinlik : Tűrkiye’nin Uluslararası Konumu, il superamento dei parametri della Guerra Fredda implica la reinterpretazione del proprio ruolo geopolitico – e questo vale per la Turchia quanto per l’Italia. Un ruolo geopolitico e quindi – sottolineo – politico – di riconquista di una dimensione decisionale e non di contorno della politica nei confronti dell’economia.

E’ ben vero che l’enorme rilievo dell’interscambio commerciale con quasi tutti i Paesi limitrofi, a cominciare dall’Iran, e il fatto che Russia e Cina siano in assoluto il secondo e il terzo partner commerciale traducono anche in termini economici le nuove proiezioni geopolitiche della Turchia; l’Italia, quarto partner commerciale in assoluto del Paese della Mezzaluna, potrà indirettamente giovarsi di tale “apertura al mondo” della Turchia, se saprà acquisire una visione lungimirante delle relazioni internazionali, non fondata su pregiudizi ideologici e non sbilanciata aprioristicamente in senso transatlantico, ma invece più attenta all’area mediterranea e a quella del Vicino Oriente, e in generale ai nuovi attori emergenti nello scenario mondiale.

Grazie per l’attenzione.

Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism

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Si è tenuta a Parigi, i giorni 24 e 25 novembre, presso il Radisson Blu Ambassador Hotel la conferenza internazionale Russia and Europe: Topical Issues of Contemporary International Journalism.
Tra i relatori presente anche Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di “Eurasia”, il quale ha preso parte alla terza sessione, svoltasi dalle 17 alle 19 del 24 novembre sul tema “Part mass media plays in international relations and the effect it has on them“.
L’organizzazione è stata a cura del Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa e dell’Agenzia Federale delle Comunicazioni russa, in collaborazione con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, IFIMES e “The 4th Media”.
Di seguito il testo dell’intervento di Tiberio Graziani.

 
L’INTERVENTO di Tiberio Graziani

Come è universalmente accettato i mezzi di comunicazione di massa costituiscono un importante strumento per lo scambio di informazioni tra persone, industrie, nazioni, ai fini del raggiungimento di alcuni rilevanti obiettivi, tra cui soprattutto la conoscenza reciproca relativamente agli ambiti culturale, economico, politico, sociale e la formazione della cosiddetta opinione pubblica.

A dx: Tiberio GrazianiD’altra parte, dobbiamo anche riconoscere l’intrusione dei mezzi di comunicazione di massa nella vita quotidiana degli individui per quanto riguarda gli ambiti sopra citati. Il principale effetto della pervasività dei mezzi di comunicazione può essere valutata col cambiamento del comportante sociale avvenuto negli ultimi sessanta anni nelle Nazioni europee, specialmente in quelle caratterizzate dalla cultura cattolica.

Oggi, possiamo affermare che, rispetto al comportamento sociale, ci troviamo di fronte non più a un Paradigma culturale europeo, bensì di fronte a un generico modello “ occidentale” (o per meglio dire occidentalizzato), modulato sui valori statunitensi.

Lo spostamento da una paradigma culturale europeo ad uno occidentale dipende, fra l’altro, da precise cause geopolitiche.

Tiberio Graziani pronuncia il suo interventoDallo specifico punto di vista geopolitico, l’Europa, cioè la penisola eurasiatica che chiamiamo Europa, costituisce – a partire dalla fine della seconda Guerra Mondiale -, la periferia del sistema occidentale guidato dagli Stati Uniti. Mentre dal punto di vista geostrategico, a causa dell’Alleanza egemonica NATO, essa costituisce la testa di ponte atlantica gettata sulla massa eurasiatica.

Riferendoci all’argomento di questa sessione, cioè al ruolo svolto dai mezzi di comunicazione di massa nell’ambito delle “Relazioni internazionali”, e adottando l’analisi geopolitica, possiamo facilmente osservare che i mezzi di comunicazione sono generalmente “piegati” o strumentalizzati ai fini delle prassi geopolitiche dei principali attori globali. Ad esempio, i mezzi di comunicazione di massa “occidentali” – vale a dire i mezzi di comunicazione del sistema geopolitico guidato dagli USA – contribuisce alla “esportazione” del modello e dei valori occidentali (quali la particolare interpretazione della democrazia, la prospettiva neoliberale, la neoreligione dei cosiddetti diritti umani, etc. etc.), senza alcuna considerazione riguardo alle altre culture (asiatiche, africane, ed europee, etc.).

In primo piano: Tiberio GrazianiSotto questo particolare aspetto, i mezzi di comunicazione costituiscono un particolare e decisivo elemento delle prassi relative al soft power elaborate dagli attori geopolitici.

La relazione tra Informazione – Potere e Finalità geopolitiche è dunque molto stretta.

I Mass Media hanno pertanto una grande responsabilità. Essi possono concorrere alla comprensione reciproca tra le nazioni e i popoli, ma anche a distruggerne l’amicizia.

La relazione tra la Russia e i Paesi dell’UE ha bisogno di essere consolidata. Il problema principale che potrebbe ostacolare l’importante e geopoliticamente naturale processo di consolidamento, con rilevante beneficio delle popolazioni che vivono nella massa continentale eurasiatica, è costituito dal ruolo svolto dagli USA in Europa e dalle politiche transatlantiche di Bruxelles.

In primo piano: Tiberio GrazianiUn giusto uso dei Mezzi di comunicazione può concorrere al miglioramento delle relazioni tra l’Europa e la Russia con mutuo beneficio.

Generalmente, l’informazione sulla Russia, diffusa dai Mass Media europei, fornisce una rappresentazione “non realistica” della vita politica e delle giuste aspettative della Federazione. In particolare, l’informazione europea sugli aspetti politici della Russia sembra essere ideologicamente orientata. In altre parole, i mezzi di comunicazione dell’UE diffondono una interpretazione – e non una descrizione – delle questioni politiche russe, in accordo ai valori occidentali ed agli interessi transatlantici. La conseguenza di tale marcata interpretazione pro-occidentale si riflette nella formazione e nell’orientamento della “pubblica opinione europea”, rendendola particolarmente diffidente verso la Russia; tale comportamento ci mostra che i mezzi di comunicazione europei svolgono un ruolo fondamentale nell’ambito della soft power strategy adottata dal sistema occidentale guidato dagli USA.

Al fine di fornire all’opinione pubblica europea una descrizione più realistica della Russia, occorre migliorare lo scambio di informazioni adottando alcuni criteri comuni.

In primo piano: Tiberio GrazianiÈ desiderabile una minore dipendenza dei mass Media europei dagli interessi statunitensi. I mezzi di comunicazione europei dovrebbero favorire, con senso critico, le relazioni tra i popoli che abitano la parte occidentale dell’Eurasia (cioè l’Europa) e il popolo russo.

I mezzi di comunicazione di massa giocheranno un ruolo sempre più importante e crescente nella costituzione del nuovo ordine multipolare.

L’Europa, nel suo insieme, dovrebbe decidere, nel breve tempo, il proprio futuro geopolitico: essere la periferia del sistema occidentale o diventare un attore nel quadro dello scenario multipolare. L’Europa potrebbe superare l’attuale crisi finanziaria ed economica consolidando le relazioni (politiche, economiche, infrastrutturali e sociali) con la Russia, l’India e la Cina, le più importanti nazioni eurasiatiche. In tale contesto i mezzi di comunicazione europei possono svolgere una funzione determinante.

Dopo la “Primavera”: dalle rivolte arabe ai nuovi assetti globali (Fontenuova)

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Sabato 26 novembre 2011, alle ore 16, si è tenuta a Fontenuova (RM), presso la Biblioteca Provinciale di Via Machiavelli, la conferenza Dopo la “Primavera”. Dalle rivolte arabe ai nuovi assetti globali.
Sono intervenuti come relatori: Giacomo Guarini (ricercatore presso l’IsAG), che parlerà di “Medio e Vicino Oriente dopo le rivolte”, e Fabrizio Di Ernesto (giornalista dell’ASI e saggista), che tratterà de “Il caso libico”.
L’organizzazione è stata a cura dell’Associazione Millennium, in collaborazione con l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) e Fuoco Edizioni.
Di seguito il testo dell’intervento di Giacomo Guarini.

 
L’INTERVENTO di Giacomo Guarini

Buonasera a tutti,

ringrazio anzitutto gli organizzatori per avermi dato possibilità di essere qui con voi a discutere della tematica proposta: lo sviluppo delle cosiddette Primavere arabe e i nuovi assetti globali che ne derivano.

Proverò a dividere la mia esposizione in tre parti:

    - una panoramica descrittiva delle rivolte nell’area mediterranea, che è quella che ha goduto di grande attenzione mediatica in ‘Occidente’ con i rivolgimenti in Tunisia ed Egitto prima, i disordini libici cui ha fatto seguito il ben noto intervento militare esterno nel paese, la crisi siriana che va evolvendosi in forme sempre più acute;

    - cenni a quelle ‘Primavere’ quasi del tutto ignorate dalle nostre parti, che hanno coinvolto i paesi della penisola araba;

    - cenni ai nuovi possibili assetti regionali e globali, anche alla luce dell’atteggiamento che le grandi potenze vanno assumendo nell’area.

Una prima precisazione: la decisione di trattare separatamente i rivolgimenti in corso nell’area mediterranea e nella penisola araba non scaturisce da mero criterio geografico ma nasce da più profonde implicazioni. Di fatto, le rivolte dell’area mediterranea sono state oggetto di grande attenzione mediatica e incisive risposte politiche; i rivolgimenti della penisola non hanno invece avuto pressoché alcuna eco significativa né sul piano mediatico né sul piano politico internazionale.

“Primavere” mediterranee

Comincio dunque con alcuni cenni agli sviluppi delle rivolte nei paesi mediterranei, trattando di Tunisia, Egitto e Siria (il caso libico sarà di specifica pertinenza del correlatore Di Ernesto).

Tunisia: è stato il primo paese nel quale il malcontento popolare è esploso in forme incontenibili. Estesosi dall’entroterra verso la capitale costiera Tunisi, renderà vane le violente repressioni di Ben Alì, presidente del paese dal 1987, che sarà infine costretto alla fuga in Arabia Saudita. Alla sua dipartita seguiranno ancora scontri di piazza a più riprese, dovuti soprattutto all’insofferenza del popolo per governi provvisori caratterizzati ancora da una forte presenza di membri del vecchio establishment. Nuove elezioni avranno luogo il 23 Ottobre, inizialmente previste per la fine di Luglio.
L’esito elettorale porterà ad una vittoria quasi scontata del partito definito “islamico-moderato” Ennahda che conquisterà 90 seggi su 217 con circa il 41% delle preferenze espresse. Rachid Gannouchi è il leader della forza politica uscita vincitrice dalla competizione.

Il paese all’indomani delle competizioni elettorali: Gannouchi sembrerebbe al momento assumere funzione equilibratrice fra le istanze più radicalmente islamiste e quelle più laiche del paese. Da un lato ha riconosciuto legittimità politica alla formazione islamista radicale Ettahir, la cui partecipazione alla competizione elettorale era stata esclusa dal governo di transizione. D’altro canto, l’assetto istituzionale si è consolidato sulla base del legame con partiti di estrazione laica quali l’Ettakatol e il Congresso per la Repubblica (in merito alla designazione rispettivamente del presidente dell’Assemblea costituente e del Capo dello Stato ad interim) e di rilievo è stato l’ammiccare al modello turco ed alla figura di Erdoğan, la cui formazione politica richiama chiaramente le radici islamiche ma ripudia quello che definiremmo “fondamentalismo”. Indicativo della volontà di Gannouchi di emergere come leader moderato dalla competizione è stato anche l’aver posto l’accento sulla grande partecipazione politica femminile nelle stesse file di Ennhada, nonché il ripudio di provvedimenti proibizionisti nella vita civile ispirati a ragioni confessionali.

Egitto: l’11 Febbraio Mubarak, dopo aver tentato alcune riforme cosmetiche in seno all’establishment, si vedrà costretto a lasciare il potere in seguito ad indomabili proteste, nonostante – anche qui – l’intervento di forze di repressione governative e para-governative. Il potere è delegato provvisoriamente al Consiglio supremo delle forze armate. Attualmente, anche a seguito dell’approvazione di modifiche costituzionali, l’art. 56 della costituzione provvisoria prevede la prerogativa eccezionale per le stesse forze armate di adottare atti normativi. E possiamo dire che proprio il potere del Consiglio militare rappresenta ancora oggi un forte fattore di impedimento alla pacificazione sociale (non l’unico, per la verità, considerando i casi di violenza inter-religiosa che continuano a manifestarsi nel paese) dal momento che Piazza Tahrir al Cairo, assurta a simbolo della mobilitazione popolare contro Mubarak, ha continuato anche dopo la caduta dello stesso ad essere popolata in segno di protesta e proprio in questi giorni assistiamo a manifestazioni ‘oceaniche’ come quelle di Febbraio. Elezioni non hanno ancora avuto luogo (il primo turno si svolgerà il 28 Novembre), ma il fermento socio-politico di questi mesi non ha fatto che dimostrare la grande forza di cui gode un movimento come quello dei Fratelli Musulmani, confermata anche dalla capacità di mobilitazione nelle proteste di cui abbiamo fatto cenno. Dovrà dunque passare del tempo, prima di poter assistere ad una più chiara ridefinizione dei rapporti di forza fra i soggetti politico-sociali provenienti “dal basso” (presso i quali, le componenti islamiste assumono grande peso) e “dall’alto” (il Consiglio militare, la cui presenza nelle istituzioni è ancora forte).

I rivolgimenti in Egitto e Tunisia, elementi comuni di riflessione:

    - Abbiamo assistito alla caduta di regimi pluridecennali, autocratici, ‘laici’, appoggiati dall’ ‘Occidente’.

    - In entrambi i paesi forti spinte alla rivolta sono nate da malcontento sociale. Disoccupazione, aumento dei prezzi dei beni di prima necessità (fenomeno per il quale si è diffusamente denunciata l’influenza delle speculazioni finanziarie), cleptocrazia sono stati tutti elementi che hanno giocato un importante ruolo come scintilla dei fenomeni di destabilizzazione.

    - La caduta dei regimi ha lasciato il posto ad un fermento politico dalle forti connotazioni religiose, già carsicamente radicato nel tessuto sociale. Un elemento – la componente islamista – che pure se in forme diverse ritroveremo anche nella crisi siriana di cui andremo a parlare e in quella libica di cui dirà Di Ernesto.

    - Si è detto come i governi di Ben Alì e Mubarak godessero di solidi rapporti con i paesi occidentali, per quanto le stesse relazioni fossero soggette ad alti e bassi. Tuttavia non può tacersi il ruolo che ha giocato nelle rivolte un fattore controverso quale la presenza di attivisti ed ong caratterizzati da legami diretti o indiretti con l’ ‘Occidente’ e con gli USA in particolare. Si pensi a quelle rivelazioni di Wikileaks diffuse nei giorni dell’infiammare delle proteste egiziane, le quali facevano riferimento a legami fra diplomazia USA e attivisti egiziani volti a favorire un regime change nel paese. Vi sarebbe molto altro da dire su questi legami, per alleggerire la trattazione preferisco farlo per immagini più che per parole:

Egiziani dissidenti accolti a Washington presso la Freedom House (2008)

Attivisti per i diritti umani egiziani accolti presso il Dipartimento di Stato (2009)

Simbolo di Otpor, organizzazione serba per i diritti civili, sostenuta e finanziata da Freedom House il cui ruolo è stato determinante nella caduta del presidente Milosevic

Nelle proteste egiziane, il movimento 6 Aprile fa largo uso di simboli che richiamano Otpor; esponenti dell’organiz- zazione stessa e fonti giornalistiche hanno fatto riferimento agli intensi legami fra le due organizzazioni

I legami diretti o indiretti fra movimenti ed ong di protesta e governo USA sembrano dunque rispettare la strategia delle cosiddette “rivoluzioni colorate”, applicata in particolare nei Balcani, nell’Est Europa ed in Centro Asia e consistente nel promuovere cambi di regime favorevoli a Washington proprio mediante il massiccio finanziamento di gruppi e movimenti locali finalizzati al sovvertimento non-violento di governi autocratici o presunti tali. Certamente vi è nel contesto ‘egizio-tunisino’ una grande anomalia, data dal fatto che qui non si è agito contro governi ostili agli USA, tutt’altro. Tenteremo in conclusione di accennare ai possibili motivi di simili scelte strategiche.

Siria: rappresenta sicuramente lo scenario più delicato al momento nell’area mediterranea, suscettibile di brusche e sconvolgenti evoluzioni nel breve periodo. Si è cominciato a parlare di Siria in relazione alle rivolte arabe nel mese di Marzo, con i primi disordini di Deraa. Per lungo tempo i principali media panarabi (Al-Jazeera e Al-Arabiya) ed occidentali hanno esclusivamente trattato delle violente repressioni governative, spesso in verità anche riportando notizie e testimonianze audiovisive di dubbia – quando non nulla – attendibilità. Con questo non si vuole negare la violenza delle repressioni governative, soprattutto in particolari frangenti, ma si vuole mettere in luce un aspetto della crisi parecchio trascurato dai media nel corso dei mesi e solo ora parzialmente emerso. A fare da contraltare alle notizie di violenze arbitrarie su pacifici manifestanti, infatti, vi è la versione del governo siriano, che ha denunciato sin dall’inizio un “complotto dall’estero” e l’azione di terroristi autori di attentati contro i militari e contro i civili. Diverse testimonianze audiovisive sono state riportate al riguardo dalle tv di Stato. Negli ultimi giorni, invece sta acquisendo certa visibilità l’ “Esercito Siriano Libero”, che ha rivendicato diversi attentati a luoghi di rilevanza politica e militare. Per simili fatti, dunque, anche la stampa occidentale è giunta infine a fare riferimento esplicito alla realtà di una guerra civile nel paese. Da rilevare anche che il governo ha proposto e promulgato diversi provvedimenti di riforma sin dall’inizio della crisi (apertura del web, riforme istituzionali finalizzate al pluripartitismo, amnistia per gli autori di disordini, fine dello stato di emergenza in vigore da decenni, etc.) ma questi non sono mai stati posti alla base di un dialogo fra le parti, a causa del rifiuto pregiudiziale dei ‘ribelli’ che hanno presto alzato la posta, chiedendo non più determinate riforme, ma un immediato ed incondizionato regime change. Ultimo elemento che vorrei mettere in luce è il sostanziale sostegno di cui Assad sembra di fatto godere presso larghe fasce della popolazione e – elemento degno di nota – presso le minoranze religiose, fra cui quella cristiana. Il timore espresso da diversi esponenti di quest’ultima è che l’attuale pace confessionale e rispetto religioso garantiti politicamente, verrebbero meno a causa del forte radicamento islamista degli oppositori governativi.

La crisi siriana nel contesto internazionale: la crisi in corso vede il governo in serie difficoltà e semi-isolato internazionalmente. Con accuse basate su una condotta repressiva del governo contro le istanze del popolo, le prime dure critiche sono arrivate dall’ ‘Occidente’. La Turchia – negli ultimi tempi impegnata in un riavvicinamento a Damasco, sancito da importanti forme di cooperazione strategica – ha avuto negli ultimi mesi un atteggiamento di crescente ostilità, sfociato nella minaccia di intervento ‘umanitario’ degli scorsi giorni, per di più accolta favorevolmente da esponenti dei Fratelli Musulmani siriani, anche qui in opposizione al governo costituito. Abbiamo poi la Lega Araba, che si è visto aver agito politicamente contro la Siria con la sospensione della membership nell’organizzazione ed elaborando sanzioni da applicare. A difendere il governo di Assad resta la Russia, per la quale la Siria ha una funzione strategica troppo importante come sbocco sempre ricercato nei “mari caldi”, dal momento che le è garantito l’accesso al porto di Tartus. Anche la Cina avrebbe interesse a difendere il paese da un eventuale intervento ‘umanitario’, soprattutto dopo che la risoluzione ONU 1973 per la Libia è stata interpretata a puro arbitrio delle forze intervenute. Per ora però le sue reazioni sono parse abbastanza tiepide. L’Iran resta infine uno strenuo difensore della Siria, trovando in essa un alleato vitale, un punto di riferimento fondamentale nella regione, come lo è d’altronde anche per la milizia islamico-sciita libanese di Hezbollah, nonché come elemento di raccordo fra quest’ultima e lo stesso Iran.

Le ‘Primavere’ ignorate: la penisola araba

Anche la penisola araba è stato centro di disordini di non indifferente portata, eppure questi sono stati sistematicamente ignorati dai nostri media, a parte forse certi riferimenti allo Yemen. In Arabia Saudita vi sono state tensioni soprattutto nella parte orientale del paese, a maggioranza sciita (della stessa confessione religiosa dell’Iran, a differenza dell’establishment saudita radicato nella tradizione del sunnismo wahabita) e particolarmente tesa è stata ed è la situazione in Bahrein; è noto a chi ha seguito con più attenzione i fenomeni in corso nel mondo arabo che il governo saudita è intervenuto con carri armati nella piccola isola per facilitare la repressione delle proteste pacifiche di civili disarmati. Da rilevare che in questi due scenari la rivolta coinvolge sostanzialmente la popolazione di confessione sciita in paesi dove l’assetto istituzionale è di forte ispirazione sunnita e l’orientamento confessionale si riflette anche nella vita civile e sociale, causando forti discriminazioni. La Repubblica Islamica dell’Iran ha fortemente simpatizzato con simili proteste, per comunanza confessionale, ma anche perché si tratta di spine nel fianco del regime saudita e dei suoi alleati, con i quali l’Iran è in competizione per l’egemonia regionale.

‘Occidente’ e monarchie del Golfo: un progetto strategico comune? Perché, tuttavia, queste proteste non hanno avuto la stessa risonanza ed impatto di quelle ‘mediterranee’ precedentemente trattate? Proviamo a rispondere. Le cosiddetta petro-monarchie del Golfo costituiscono un fondamentale serbatoio energetico per l’ ‘occidente’, USA in primis e per questi ultimi vi è anche una valenza strategica fondamentale. Si pensi alle varie basi militari USA ivi dislocate (si parla di più di 40.000 truppe statunitensi presenti nel Golfo), le quali hanno anche una importante funzione di accerchiamento dell’Iran, nemico comune agli USA e ai paesi peninsulari. Insomma, simili esigenze di grande interesse strategico hanno evidentemente portato ad allontanare l’attenzione dalle rivolte in corso in questi scenari; tuttavia dobbiamo far riferimento anche ad altre esigenze strategiche di più immediata contingenza e –aggiungo – cruciali per comprendere l’evolvere dei sommovimenti in corso. Mi riferisco ad una sostanziale convergenza strategica – pur fra inevitabili divergenze di second’ordine – fra i più influenti paesi dell’area (Arabia Saudita e Qatar in primis) da un lato e gli USA (seguiti a ruota dagli altri paesi occidentali) dall’altro, nel promuovere la caduta dei governi costituiti nel Mediterraneo o quantomeno nel sostenere le forze politiche successivamente insediatesi. L’aiuto sostanziale di questi paesi arabi in tal senso si è avuto su più fronti:

    - Copertura mediatica: Al-Jazeera ed Al-Arabiya sono due emittenti rispettivamente facenti capo all’emiro del Qatar e alla famiglia dei Saud, al potere in Arabia Saudita (anche se la sede dell’emittente è negli E.A.U.). E’ noto ormai come simili emittenti abbiano letteralmente taciuto i pur rilevanti sommovimenti in corso nella penisola araba mentre abbiano intensamente sponsorizzato quelli nell’area mediterranea, arrivando spesso a storture – quando non a vere e proprie menzogne – per promuovere la caduta dei regimi mediterranei.

    - Sostegno finanziario: concretizzatosi in più forme, soprattutto da parte saudita e qatariota; si pensi all’impulso agli investimenti e ai prestiti al ‘nuovo’ Egitto e alla ‘nuova’ Libia. Ma meriterebbe una trattazione a parte la questione del sostegno agli stessi movimenti politico-religiosi sunniti operanti nell’area. Per inciso, si noti come massicci fondi siano stati invece stanziati per finalità inverse (garantire la sopravvivenza dei regimi politici al potere) nel Golfo ed in paesi alleati. L’Arabia Saudita, ad esempio, si è impegnata a stanziare una quantità enorme di denaro (130 miliardi di dollari, pari al 36% del suo pil) per promuovere riforme sociali interne e salvare sé stessa, ma anche ingenti risorse destinate ai governi amici destabilizzati dalle rivolte grazie al Consiglio di Cooperazione del Golfo.

    - Appoggio militare e para-militare: Qatar e E.A.U. hanno dato il loro sostegno all’operazione militare in Libia. In particolare il Qatar ha anche lavorato nelle operazioni più delicate, quale la dislocazione di truppe speciali a terra che ha permesso la presa di Tripoli. Riguardo alla destabilizzazione in corso in Siria, anche analisti occidentali – tutt’altro che sospetti di simpatie baathiste – ipotizzano il sostegno indiretto dei sauditi ai gruppi armati antigovernativi, contando sull’appoggio di Hariri dal Libano e sulle frontiere porose dell’Iraq, nonché sulla collaborazione dell’alleato giordano.

    Attività politica: la Lega Araba ha mostrato piena ostilità nei confronti di Gheddafi ed Assad mentre – ovviamente – nessun provvedimento di sanzione è stato preso nei confronti dei governi della penisola a causa delle repressioni attuate (in base ai rapporti di forza in seno alla Lega, la cosa avrebbe significato accusare sé stessi).

Conclusioni

Abbiamo visto come i sommovimenti nell’area mediterranea (Egitto, Tunisia, Libia e Siria) stiano vedendo come attori protagonisti in primo luogo forze islamiste (tendenti all’oltranzismo o a posizioni moderate a seconda dei luoghi); fra queste, i Fratelli Musulmani parrebbero rappresentare la forza più dirompente, che emerge in paesi ‘laici’ dove aveva sempre subìto forti forme di contenimento o effettiva repressione.

I paesi del Golfo hanno dato un sostanziale sostegno a simili fermenti, scommettendo sul forte ascendente politico che potranno avere sulle forze politiche emergenti ispirate all’islamismo sunnita. Hanno invece taciuto, contenuto e represso ogni forma di dissenso nella propria area di riferimento.

I paesi occidentali, USA in testa, hanno contribuito alla caduta di regimi pure ad essi legati (Tunisia, Egitto) e promosso parimenti un cambio politico di regimi ad essi ostili (Libia, Siria in corso).

La domanda che sorge spontanea è: perché l’egemone USA ha assecondato un generale stravolgimento degli assetti mediterranei, anche quando questo ha coinvolto governi tutto sommato affidabili e ad essi legati?

Diverse risposte possono provarsi a dare sulle finalità di tale scelta e possiamo individuare scopi strategici a valenza regionale e globale:

1. A livello regionale: l’appoggio alle “Primavere” ha portato alla caduta di regimi ‘fidati’, i quali però erano causa di forte malcontento presso la popolazione e di certa preoccupazione presso gli stessi USA (vedi i crescenti legami con la Cina). La loro caduta ha portato ad un rilancio d’immagine, con il quale gli USA hanno potuto presentarsi come sensibili alle istanze democratiche delle popolazioni; l’instabilità ivi creatasi ha inoltre permesso di rendere le frontiere di Tunisia ed Egitto con la Libia ancora più porose, favorendo operazioni militari contro le forze di Gheddafi nel conflitto libico; infine il ‘caos’ propagatosi ha irrimediabilmente turbato importanti processi di autonoma integrazione mediterranea che rischiavano di estromettere pericolosamente gli stessi USA dall’area (partnership italo-libica, fronte Roma-Ankara-Mosca, progetto di gasdotto Iran-Iraq-Siria).

Giacomo Guarini, Carlo Prosperi, Fabrizio Di Ernesto2. La particolarità della crisi siriana: abbiamo visto in queste settimane la Siria e l’Iran nel mirino. La caduta del regime di Assad rappresenterebbe nell’area sicuramente un evento dagli effetti imprevedibili. E tuttavia rappresenterebbe un colpo fortissimo inferto all’Iran (di cui è saldo alleato) e di un certo fastidio anche per la Russia. Inoltre – come accennato – è proprio la possibilità che forze sunnite islamiste rimpiazzino il Baath al potere ad allettare le mire dei sauditi e dei loro alleati nella lotta regionale per l’egemonia contro il bastione sciita di Persia. La caduta del regime siriano è in effetti un obiettivo più vicino e probabile che non lo scontro diretto con l’Iran, il quale rappresenta in ogni caso il nemico ultimo nell’area per sauditi e statunitensi (2).

3. Finalità a valenza globale: i fenomeni di destabilizzazione in corso compromettono sicuramente la forza della penetrazione di nuovi attori globali emergenti, Cina in primis, nel Vicino Oriente e possono collocarsi in un contesto di ricercata ostruzione da parte USA dell’accesso alle più importanti aree strategiche del globo ai nuovi competitori internazionali; si veda l’attività del comando militare statunitense per l’Africa (Africom), per la quale anche diversi analisti occidentali sottolineano l’importante funzione di contenimento e sbarramento della emergente presenza cinese nel continente africano; così come i recenti moniti di Obama alla Cina, durante la sua visita in Australia, in merito alla presenza nel Pacifico.

Abbiamo visto come il cerchio si stia stringendo sul grande nemico iraniano con pressioni contestuali e ancor più pericolose sull’alleato siriano. L’indebolimento della potenza iraniana potrebbe dare nei progetti USA linfa vitale alla loro penetrazione eurasiatica, a scapito grandi rivali continentali cinese e russo. La porta per una simile avanzata sarebbe costituita dall’area centroasiatica; identificata dal grande stratega statunitense Brzezinski (attuale consigliere dell’amministrazione Obama) come “Balcani eurasiatici”. Trattasi di un’area ricca di risorse e tuttavia lungi dall’essere sotto pieno controllo delle grandi potenze continentali (Russia e Cina, appunto), nonché polveriera di conflitti etnico-religiosi suscettibili di esplosione (non a caso è stata creata un’organizzazione di cooperazione – quella di Shanghai – che ha come primo scopo la sicurezza e la stabilità dell’area). In un simile scenario, un forte impegno degli USA volto a far leva sul fattore islamista nonché su frizioni etniche, potrebbe portare a creare una vasta zona di frattura nell’area centroasiatica, in grado di colpire duramente la stabilità dei due giganti asiatici anche perché suscettibile di facili sconfinamenti entro i loro confini interni (vedi le aree di crisi russa a considerevole presenza musulmana e lo Xinjiang cinese). Una lunga fascia di destabilizzazione che darebbe dunque non pochi pensieri ai grandi rivali eurasiatici degli USA.

In ogni caso, tornando al contingente e al nostro scenario di riferimento, vi sono al momento l’incognita siriana e quella iraniana. Un intervento armato in Iran vorrebbe dire scatenare un conflitto di imprevedibili proporzioni e conseguenze ma in effetti i recenti rumors su di un intervento militare sono stati talmente amplificati da far pensare più ad una volontà di fare pressione su Cina e Russia che non a reale volontà bellica, almeno nel breve periodo. Tuttavia anche l’intervento in Siria sarebbe probabilmente foriero di conseguenze e reazioni tutt’altro che circoscritte entro i suoi confini come – in un certo senso – può essere stato nel caso libico; non ha torto Assad quando paventa conseguenze disastrose per tutto il Vicino Oriente in caso di attacco al proprio paese. Vi è da constatare che l’establishment occidentale ha dimostrato in questi mesi tutto fuorché senso della misura e quindi un conflitto a breve, soprattutto in Siria, non può totalmente escludersi, tanto più se sulla questione siriana ci si potrà avvalere di una ‘procura’ turca. Determinante sarà la reazione di Russia e Cina, che già hanno fatto abortire tentativi di risoluzione al riguardo in sede ONU. I due paesi hanno spesso dimostrato molta cautela, evitando di fare “muro contro muro” con gli USA su questioni che non riguardavano le proprie immediate pertinenze territoriali o interessi vitali. La Cina, in particolare, cerca di potenziare al massimo il proprio sviluppo economico, rimandando nel tempo uno sforzo più strettamente politico a livello internazionale. Sinora, l’atteggiamento di Pechino è stato dunque di attesa: si è ritenuto da parte sua non proficuo sviluppare contrapposizioni frontali con gli USA, sulla base del fatto che la superpotenza è in fase di declino evidente. Inutile dunque rispondere in maniera frontale, quando il tempo potrà da solo portare ulteriori frutti amari al grande rivale americano.

Tuttavia, si fa vicino il momento in cui diventa necessario che un pur saggio atteggiamento attendista venga a confrontarsi in misura politicamente più assertiva contro l’aggressivo attivismo militare, politico e finanziario della potenza egemone. Sulla questione siriana la Russia sembra pronta a questo e ha già dato dei segnali con una serie di atti politici e ‘para-politici’. Vedremo allora quanto sarà forte la volontà degli USA e dei paesi ostili alla Siria (Turchia in primis) ad intraprendere nuove tragiche avventure belliche nella regione – o anche solo ad alzare in maniera indiretta il livello di destabilizzazione e conflittualità interne – e se nel caso la Cina e la Russia saranno disposte a lasciare di nuovo carta bianca alla sclerotica aggressività di una potenza incapace di accettare la crisi strutturale che l’attraversa e il conseguente declino.

Il BRICS in aiuto dell’Europa: T. Graziani interpellato da RT

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Il 29 novembre 2011 la televisione satellitare russa in lingua inglese RT ha trasmesso un servizio dal titolo “Eastern Promise”, all’interno del quale sono stati proposti gl’interventi d’alcuni esperti, tra cui quello di Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG. Proponiamo di seguito il video del servizio, concernente i possibili investimenti strategici dei BRICS in Europa, e la traduzione della sintesi pubblicata da RT sul proprio sito.

Mentre le economie occidentali annaspano, l’Oriente ha visto una rapida crescita finanziaria. La presenza della Cina in Europa si può sentire più che mai, con Pechino intenta a fare investimenti strategici, sebbene sia ancora cauta sull’opportunità di comprare il debito del continente.
Con l’attuale turbolenza economica, non c’è momento migliore per paesi come la Cina per strappare accordi come quello per la recente acquisizione del noto marchio italiano della moda “Cerruti” da parte d’un venditore di vestiti di lusso cinese, proprietà del gruppo commerciale d’Hong Kong “Li&Fung”.
“La Cina è interessata ad investire in Italia, e nei paesi europei in generale. Credo sia una buona opportunità”, dichiara Tiberio Graziani, analista della rivista trimestrale “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”.
Non c’è solo la Cina a fare affari: per i paesi la cui economia gira bene, comprare i patrimoni europei è un ottimo investimento. Mentre l’Occidente annaspa, è il gruppo emergente BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) a portarsi in testa.
“Questo può essere il momento a cui si guarderà indietro e si dirà: ecco quando i mercati emergenti ebbero la loro opportunità d’essere attori più grossi, e potenze più grosse nel mondo”, crede il cronista economico del “Wall Street Journal” Sudeep Reddy.
Ma se gli affari cinesi danno prova di grande competizione, la Cina ha mostrato cautela quando si è trattato d’acquistare il debito europeo. Vuole piuttosto partecipare in grandi progetti infrastrutturali in Europa e negli USA – e non solo come appaltatore, ma anche investitore, sviluppatore ed operatore. Così ha sostenuto Lou Jiwei, dirigente del fondo sovrano cinese, in un articolo domenicale sul “Financial Times”.
“Al CIC – ha argomentato – crediamo che un simile investimento, guidato dai principi commerciali, offra l’opportunità d’una soluzione vantaggiosa per tutta”.
Liu Baocheng, professore all’Università degli Affari ed Economia Internazionali, afferma che la Cina non pomperà denaro alla cieca nelle economie in difficoltà, senza avere parola su come saranno utilizzati.
“La Cina dovrebbe vederlo come un investimento, non un aiuto finanziario. L’investimento dovrebbe indirizzarsi verso i cespiti di valore, per aiutare le industrie, piuttosto che funzionare da assegno in bianco”.
Al crescere degl’investimenti cinesi nelle compagnie ed infrastrutture occidentali, crescono anche il controllo e l’influenza della Cina, non solo nella moda, ma nell’intera economia europea. Una delegazione di mercanti ed investitori cinesi visiterà l’Europa il prossimo anno: sono estremamente probabili ulteriori investimenti.
“L’aggregazione geoeconomica che chiamiamo BRICS può essere un interlocutore molto interessante per superare l’attuale crisi finanziaria”, si augura Tiberio Graziani.
Mentre la crisi continua a riarrangiare le avanguardie economie sulla scena economica, le economie emergenti come la Cina cercano di mantenersi saldamente sotto il riflettore.

Trieste: “La sfida dell’India: nascita di una superpotenza?”

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Si è tenuta a Trieste giovedì 1 dicembre 2011 alle ore 17.30, presso l’aula D1 della Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori dell’Università degli Studi di Trieste (sita in Via Filzi 14), il seminario “La sfida dell’India”.
Sono intervenuti come relatori Francesco Brunello Zanitti (ricercatore all’IsAG, autore di
Progetti di egemonia), Vincenzo Mungo (redazione esteri di Radio RAI, autore de La sfida dell’India) e Arduino Paniccia (docente di Studi strategici all’Università degli Studi di Trieste).
L’organizzazione è stata a cura dell’Associazione “Strade d’Europa” in collaborazione con l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) ed il contributo dell’Università degli Studi di Trieste.
Di seguito il resoconto dell’evento, redatto da Lorenzo Salimbeni, ed il testo dell’intervento di Francesco Brunello Zanitti.

 
LA CRONACA di Lorenzo Salimbeni

Sulla scena geopolitica mondiale sta prendendo corpo un nuovo soggetto, il BRICS, acrostico che indica Brasile, Russia, India, Cina e, da qualche mese, Sudafrica, vale a dire quelle potenze che in questo periodo di crisi economica del mondo occidentale possono invece vantare un trend positivo. Si tratta perciò di capire le basi e le cause di questo fenomeno e in particolare l’India è un Paese di cui neanche troppo se ne parla e poco effettivamente se ne sa. L’associazione Strade d’Europa, grazie al contributo dell’Università degli Studi di Trieste, in collaborazione con l’Istituto di Alti studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie, ha inteso approfondire l’argomento giovedì 1 dicembre organizzando il convegno La sfida dell’India. Nascita di una superpotenza?

Lorenzo Salimbeni apre la conferenzaL’evento riprendeva il titolo del volume scritto da Vincenzo Mungo, capo servizio Redazione esteri di Radio Rai, e pubblicato dalle Edizioni all’Insegna del Veltro ed è stato proprio l’intervento dell’autore ad aprire l’incontro. Innanzitutto è stato analizzato il percorso compiuto dall’India per conquistare la propria indipendenza, tenendo in considerazione non solo l’impegno profuso da Gandhi, ma analizzando pure il ruolo del Partito del Congresso, originariamente conformatosi alla dialettica politica britannica al fine di ottenere margini di autonomia, mentre furono Tilak e Bose i paladini della lotta per l’indipendenza senza compromessi. Aperture autonomiste, nonostante l’opposizione di Winston Churchill, furono elargite durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre nel corso della Grande Guerra la partecipazione di truppe indiane nei contingenti britannici non aveva portato alle concessioni che erano state promesse. Parallelamente, però, l’amministrazione inglese aveva esercitato il divide et impera per contrapporre la comunità indù a quella islamica, sicchè nel 1947 l’indipendenza venne ottenuta, ma il Pakistan, a maggioranza musulmana, si staccò dal resto del Paese (Partition) ed allontanò dal suo interno la componente indù. Nuova Delhi divenne pertanto la capitale dell’Unione Socialista Indiana, uno Stato federale che, pur nell’ambito di un sistema democratico, rimase fedele al sistema delle caste. Lo Stato imprenditore si fece carico di assorbire nella grande industria e nei servizi pubblici l’enorme massa di manodopera a disposizione e s’impegnò per debellare le zone di miseria e arretratezza specialmente in ambito agricolo, giungendo a garantire una qualità della vita in perenne aumento, costituendo la rete delle relazioni sociali e dei vincoli di casta un ulteriore prezioso ammortizzatore sociale. Il livello delle università e la diffusione di parchi industriali da cui ci si rivolge anche al mercato estero sono altri indicatori dei passi avanti che l’enorme nazione ha compiuto, ma causa l’eccessiva popolazione (siamo ormai attorno al miliardo e cento milioni di indiani) il PIL pro capite continua a rimanere basso.

L’attualità geopolitica è stata invece al centro della relazione del professor Arduino Paniccia, docente di Studi Strategici presso l’ateneo triestino, il quale ha già considerato l’India una superpotenza, che però si trova a dover fronteggiare diverse problematiche, poiché ha scelto di essere una democrazia di tipo occidentale, pur avendo un DNA ben diverso da quello europeo. Nonostante i conflitti scoppiati per la determinazione dei confini con Cina e Pakistan, l’India ha sempre cercato un approccio pacifico alla politica internazionale e d’altro canto ha scelto di dotarsi di un arsenale nucleare in ossequio al principio della deterrenza. Nei legami internazionali Nuova Delhi ha deciso di non aderire né all’ASEAN né all’ASEC ed ha altresì optato per la SCO, riproponendo in quest’ambito il legame con Mosca che risale dai tempi della Guerra Fredda, nonostante l’India avesse costituito il punto di riferimento più importante per il blocco dei Paesi Non Allineati. I rapporti con la Russia si confermano pertanto buoni, quelli con la Cina vanno migliorando, quelli con il Pakistan sono altalenanti, ma per il futuro indiano sarà importante non solo l’atteggiamento che si instaurerà nei confronti degli Stati Uniti, ma anche dell’Unione Europea, con la quale i traffici stanno raggiungendo il livello di quelli che l’Europa già intrattiene con la Cina.

Lorenzo Salimbeni introduce i relatoriFrancesco Brunello Zanitti, ricercatore dell’IsAG, ha approfonditi tali aspetti di natura geopolitica, evidenziando i tentativi indiani di mantenere una linea politica autonoma da quella occidentale, in virtù della propria posizione strategica a metà strada fra gli stretti di Hormuz e di Malacca, gli snodi principali del commercio petrolifero. Perciò Nuova Delhi ha buone relazioni economiche con Israele, ma per il proprio fabbisogno energetico si rivolge senza problemi sia all’Arabia Saudita sia all’Iran (che è un interlocutore privilegiato anche per il contenimento del Pakistan), laddove con la Cina il rapporto oscilla tra competizione e cooperazione, poiché il sostegno di Pechino al Pakistan è in grado di deteriorare la partnership tra i due giganteschi Paesi. Per lo stesso motivo le relazioni con Washington stentano a decollare definitivamente, anche se i rapporti commerciali sono già bene avviati ed i governi indiani non hanno espresso contrarietà alla possibilità che contingenti statunitensi rimangano in Afghanistan anche dopo il 2014. Anche se il problema dell’estremismo islamico è in grado di creare una sinergia con Russia, Cina e Stati Uniti, l’India auspica di risolvere bilateralmente e senza il coinvolgimento di esterni il problema del Kashmir che è alla base delle sue tensioni con Islamabad.

In definitiva tutti i relatori si sono trovati concordi nel dare una risposta affermativa al quesito che caratterizzava il titolo del seminario: l’India è già una superpotenza e continuerà ad esserlo se, nell’ambito del processo di globalizzazione, saprà restare fedele alla propria storia ed alle proprie tradizioni, conservando anche quelle prerogative nel settore economico che vengono ancora esercitate dallo Stato, mentre l’adesione incondizionata ad un modello di economia di mercato rischierebbe di alterare i precari equilibri sociali indiani.

 
L’INTERVENTO di Francesco Brunello Zanitti

In questo mio intervento intendo presentare un particolare aspetto contemporaneo dell’India, ovvero il suo ruolo geopolitico in Asia, connesso alle relazioni del paese con la Cina e la Russia, nonché con alcuni attori regionali, come l’Iran e il Pakistan; verranno presi in considerazione anche l’approccio indiano nei confronti della questione afghana e alcuni elementi delle relazioni indo-statunitensi, visti gli interessi contemporanei di Washington in Asia Meridionale.

L’India sta indubbiamente attraversando una crescita economica considerevole, ma gli ultimi mesi hanno registrato un rallentamento degli ottimi risultati economici. Pechino si trova in una fase di crescita molto più consolidata rispetto a quella di Nuova Delhi; nonostante ciò anche l’India sta aumentando il proprio peso economico e geopolitico a livello globale. È dunque giusto porsi degli interrogativi sul sorgere della superpotenza indiana poiché esistono diverse questioni aperte, contraddizioni, ostacoli e paradossi che potrebbero influenzare in diversa maniera la crescita del paese asiatico. A questo proposito ritengo che le sfide che l’India dovrà affrontare saranno principalmente tre: il primo elemento riguarda, come ricordato nel libro di Mungo, la sfida posta dalla globalizzazione economica di stampo occidentale, se l’India riuscirà a mantenere la sua specifica cultura o sarà contraddistinta da quel livellamento culturale già evidente in altre aree del globo; il secondo aspetto concerne la geopolitica e le relazioni internazionali: saprà l’India mantenere una politica estera sostanzialmente autonoma? La terza problematica è rappresentata dagli ostacoli interni di tipo economico, sociale e politico. Se l’India riuscirà nei prossimi anni ad affrontare efficacemente queste sfide ritengo che potrà effettivamente diventare una superpotenza.

Grazie alla sua posizione geografica, l’India svolge un importante ruolo dal punto di vista geostrategico perché la massa terrestre del Subcontinente, estendendosi nell’Oceano Indiano, si trova a metà strada tra due importanti stretti dal punto di vista economico, geopolitico e militare, ovvero quello di Hormuz e quello di Malacca. Gli interessi geopolitici a livello marittimo di Nuova Delhi spaziano, infatti, dal Golfo di Aden, tra Yemen e Somalia, al Mar Cinese Meridionale. Allo stesso tempo, a livello terrestre l’India intende aumentare la propria influenza in Vicino Oriente, Asia Centrale, Estremo Oriente e sud-est asiatico.

Grazie a questa particolare posizione geografica e alle diverse componenti etniche e religiose che la contraddistinguono, l’India sta cercando di mantenere una politica sostanzialmente bilanciata tra diversi poteri.

L’importante ruolo geostrategico dell’India è naturalmente ben compreso da Washington, Mosca e Pechino, i maggiori attori che competono in Asia Centrale e nell’Asia-Pacifico.

Per quanto riguarda la Cina, le azioni degli ultimi vent’anni e l’ascesa dell’India a livello economico e militare sono sovente percepite come una minaccia, soprattutto per quanto riguarda l’attenzione indiana posta nei confronti del Mar Cinese Meridionale e i discorsi aperti su potenziali accordi militari tra India, Vietnam e Giappone. Allo stesso modo i possibili legami militari ed economici tra India, Australia, Stati Uniti, Giappone e Singapore sono osservati a Pechino come azioni di contenimento verso la Cina. In ogni caso, il contemporaneo emergere della Cina come potenza con interessi nei confronti dell’Oceano Indiano, trasformandosi in attore egemone della zona meridionale del continente e non solo dell’area Asia-Pacifico, è valutato negativamente anche da Nuova Delhi: a questo proposito gli accordi commerciali e militari di Pechino con Bangladesh, Sri Lanka, Nepal, Myanmar, Bhutan e soprattutto l’alleanza militare e nucleare con il Pakistan, sono descritti anch’essi come tentativi d’accerchiamento della Cina nei confronti dell’India.

In realtà, la rivalità indo-cinese è molto spesso enfatizzata, come sostenuto dallo stesso primo ministro indiano Manmohan Singh, dai media, sia indiani sia cinesi. Nonostante permangano importanti contrasti, ad esempio per quanto riguarda il lungo confine, i rapporti economici tra i due paesi sono molto solidi e la Cina è uno dei più importanti partner commerciali dell’India, seconda solamente agli Stati Uniti. Inoltre, Pechino ha mutato la propria percezione dell’India per l’aumentata presenza statunitense in Asia Centrale e Meridionale e la grande ascesa economica di Nuova Delhi che non viene certamente sottovalutata, ma potenzialmente utilizzata per i propri interessi in Asia. Esiste quella che è stata definita un’alleanza economica di tipo pragmatico. Allo stesso tempo è da registrare una cooperazione importante in alcune zone del sud-est asiatico, come i potenziali progetti congiunti per lo sfruttamento del gas naturale in Myanmar. Vi è, inoltre, la comune appartenenza al forum dei BRICS, con la medesima percezione, assieme a Brasile, Russia e Sudafrica, di alcune questioni di carattere globale: le rivolte arabe, la visione critica nei confronti dell’intervento NATO in Libia e verso l’ipotetica azione militare occidentale in Siria, l’approccio alla questione del nucleare iraniano. Nello stesso tempo però permane una forte competizione in Asia Meridionale e nel sud-est asiatico, in misura minore in Africa e Asia Centrale a causa della ritardata penetrazione indiana in queste aree rispetto alla Cina. E’ evidente che una reale pacificazione nei rapporti tra Cina e India, le cui civiltà ebbero per buona parte della loro storia buone relazioni, genererebbe conseguenze positive per la stabilità asiatica, ma anche per quella mondiale, vista la crescente importanza a livello globale dei due paesi.

Il professor Paniccia pronuncia il suo interventoUn elemento, nell’ottica cinese, ma anche russa, che porta a considerare negativamente l’India è il rapporto che il paese asiatico ha instaurato con Washington, un’alleanza di tipo militare e nucleare.

In ogni caso, in India esistono diverse scuole di pensiero che hanno un’opinione critica a riguardo di una stretta alleanza con gli Stati Uniti.

Queste considerazioni ci portano dunque a considerare alcuni limiti dei rapporti indo-statunitensi.

1) Un primo aspetto riguarda l’Iran. Nonostante l’India abbia solidi rapporti con Israele dalla fine della Guerra Fredda, soprattutto dal punto di vista militare, e con il mondo arabo sunnita in competizione con l’Iran nel Vicino Oriente, Nuova Delhi ha come obiettivo il mantenimento di un positivo rapporto con Tehran. L’India è comunque contraria alla prospettiva del nucleare iraniano, risolvibile in ogni caso solamente mediante via diplomatica, e ha interrotto alcune esportazioni di materiale che potrebbe essere utilizzato per il programma nucleare, seguendo le direttive della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU 1929 del 2010. Il mantenimento di un proficuo rapporto con Tehran è dovuto a motivi di carattere geopolitico ed economico. A livello strategico un’alleanza indo-iraniana potrebbe essere una forma di contenimento verso il Pakistan. Inoltre, nell’ottica indiana, avere due Stati nemici ad ovest, il Pakistan e l’Iran, ma potenzialmente anche l’Afghanistan dopo il 2014, nel caso in cui Kabul ricada sotto l’influenza pakistana, appare una prospettiva controproducente per sviluppare gli interessi geostrategici futuri del paese in Asia Occidentale e Centrale. L’attenzione dell’India sull’area è fondamentale, non solo per la grande presenza di idrocarburi che soddisferebbe la crescente domanda energetica, ma anche per evitare che le repubbliche ex-sovietiche stringano un legame più forte con il Pakistan, considerata la comune religione islamica. Inoltre, la presenza della Cina nell’area è andata sempre più consolidandosi nel tempo. In ottica indiana, Tehran rappresenta un importante territorio di transito per raggiungere l’Afghanistan e l’Asia Centrale: esistono, infatti, gli ostacoli rappresentati dal Pakistan e dal territorio politicamente instabile del Kashmir, naturali e storici punti di passaggio indiano per commerciare con l’Asia Occidentale e Centrale. A livello economico l’Iran rimane, dopo l’Arabia Saudita, il secondo fornitore di petrolio dell’India e il suo territorio rappresenta una potenziale fonte di gas naturale per Nuova Delhi. Esistono a questo proposito diversi discorsi aperti per eventuali collegamenti via mare o via gasdotto.

2. I legami economici tra Nuova Delhi e Tehran ci portano a considerare un altro aspetto che limita i rapporti indo-statunitensi, facendo riferimento al legame molto stretto che esiste tra India e Russia. La scorsa settimana, a margine di un incontro tra i ministri degli esteri indiano e russo, Mosca e Nuova Delhi hanno sostenuto la volontà di ridar vita al progetto del Corridoio di trasporto Nord-Sud, accordo commerciale firmato nel 2001 tra Iran, India e Russia. Si tratta di un progetto per lo spostamento di merci indiane via mare, aggirando il Pakistan, dall’India fino all’Iran, da dove, attraverso il Mar Caspio, dovrebbero raggiungere i territori meridionali della Russia ed eventualmente l’Europa. Recentemente il governo indiano avrebbe manifestato l’interesse d’includere nel discorso anche la Cina e potenzialmente gli Stati ex-sovietici dell’Asia Centrale. Questo progetto per il commercio tra Asia Meridionale e Europa è in aperta competizione con l’architettura geostrategica a guida statunitense della “Nuova Via della Seta” che ha come obiettivo l’interdipendenza economica tra Europa, Caucaso, Asia Centrale e Meridionale in competizione con Cina e Russia. In questo caso le maggiori problematiche riguardano l’Iran e l’instabilità dell’Afpak, ma bisognerà anche attendere quale progetto l’India favorirà, visto che al momento sembra interessata ad entrambi.

La Russia rimane il principale fornitore di armi dell’India; i legami indo-russi sono molto solidi, eredi di quelli che il paese asiatico manteneva con l’Unione Sovietica. Inoltre, esiste la comune lotta contro l’estremismo di stampo musulmano che ha colpito nel passato sia la Russia sia l’India, se si pensa al Caucaso e al Kashmir. Questa politica vede unite non solo Russia e India, ma potenzialmente anche la Cina, vista la presenza dell’estremismo di matrice islamica nello Xinjiang. A questo proposito l’effettiva presenza dell’India all’interno dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (OCS) potrebbe comportare non solo una maggiore collaborazione tra Pechino, Mosca e Nuova Delhi, ma anche modificare decisamente gli equilibri geopolitici.

3. Un terzo aspetto nel quale Stati Uniti e India non sono sovente concordi riguarda il Pakistan. L’India ha sempre criticato l’eccessivo legame tra Islamabad e Washington, nonostante negli ultimi mesi l’alleanza tra i due paesi sia sempre più in crisi. L’India ha inoltre una visione molto critica nel considerare il possibile dialogo con i talebani moderati e la rete Haqqani, nonostante nello stesso tempo gli Stati Uniti chiedano al Pakistan di porre termine all’appoggio verso i gruppi terroristi lungo la linea Durand. Il problema è collegato alla sindrome d’accerchiamento pakistana e alle preoccupazioni nei confronti dei disegni egemonici dell’India nella regione. Nuova Delhi giudica positivamente la presenza statunitense con basi militari in Afghanistan, eventualmente anche dopo il 2014, ma è critica verso il possibile dialogo con i talebani moderati, paventando un possibile ritorno dell’influenza pakistana sul paese.

Nonostante il fatto che Islamabad veda il recente accordo commerciale e militare tra India e Afghanistan come una sorta di pericoloso accerchiamento, negli ultimi mesi si è registrato un timido miglioramento nei rapporti tra i due vicini rispetto al 2008. Un editoriale del “The Hindu” di pochi giorni fa, parlando a proposito del dialogo indo-pakistano, indicava come modello di riferimento da seguire le recenti relazioni tra India e Cina, dove sono state messe in secondo piano le questioni territoriali per favorire in primo luogo un discorso legato alla cooperazione economica, possibile chiave per risolvere i problemi legati al confine. Ci sono importanti settori della società indiana che chiedono una soluzione dei contenziosi con Islamabad e una definitiva pacificazione. In ogni caso sembra che l’India intenda mantenere una politica autonoma da Washington nei confronti del Pakistan, seguendo i propri interessi. Islamabad avrebbe recentemente garantito, anche se la questione è poco chiara per le numerose pressioni interne contrarie, lo status di nazione più favorita all’India, clausola economica all’interno delle regole garantite dall’Organizzazione Mondiale del Commercio. Vi sono piccoli segnali di miglioramento, ma esistono in ogni caso numerosi problemi: Islamabad non ha provveduto alla richieste indiane di chiare indagini per gli attentati di Mumbai del 2008 e d’interrompere i collegamenti con l’artefice degli attacchi, la Lashktar-e-Taiba. Il Pakistan è diviso tra governo civile da una parte e settore militare e ISI dall’altra, i quali, assieme ai gruppi islamici radicali hanno una grande influenza e osservano un avvicinamento all’India come una sorta di anatema. Ecco perché allo stato attuale non esiste un possibile rasserenamento tra i due paesi perché il Pakistan percepisce negativamente l’influenza indiana in Asia Centrale e Afghanistan. Inoltre, un accordo definitivo con l’India e l’attacco ai gruppi islamici radicali metterebbe in discussione la religione, elemento che ha dato origine e legittimità alla nazione, nonché collante di un paese diviso da contrasti etno-linguistici.

Per questo motivo la vicinanza statunitense verso Islamabad, nonostante le incomprensioni degli ultimi mesi e l’avversione dell’opinione pubblica pakistana nei confronti degli Stati Uniti sempre più forte, è letta negativamente dall’India.

Nuova Delhi è, inoltre, contraria a collegare il delicato discorso riguardante il Kashmir all’Afghanistan, connesso all’ideale della “Grande Asia Centrale” a guida statunitense, per l’importanza nazionalistica del tema, l’assoluta contrarietà alle ingerenze esterne e l’intenzione di risolvere la questione a livello bilaterale con il Pakistan. Per quanto riguarda infine un possibile scontro militare tra i due paesi, è attualmente improbabile grazie alla deterrenza nucleare. E’ evidente la superiorità militare convenzionale indiana, ma questa è paradossalmente limitata dalla presenza in entrambi i campi di ordigni nucleari. In un certo senso la deterrenza nucleare è uno svantaggio per l’India. Tutto sommato è probabile che, nel caso di un ulteriore peggioramento dei rapporti, le “azioni militari” vengano compiute dai gruppi terroristici radicali.

Negli ultimi mesi sembra dunque prevalere la volontà di mantenere una sorta di politica bilanciata tra diversi poteri. Questo si collega all’ideale della costituzione geopolitica di un mondo multipolare piuttosto che unipolare, nel quale le problematiche dell’Asia Centrale e Meridionale e del sud-est asiatico vengano risolte a livello regionale, mediante un’essenziale cooperazione tra il quadrilatero Nuova Delhi, Pechino, Mosca e Washington.

L’India potrebbe garantire la stabilità regionale e il dialogo tra poli contrapposti perché questo appare l’obiettivo primario per favorire essenzialmente la propria sicurezza interna. Infatti, non c’è solo la questione kashmira che potrebbe comportare una pericolosa instabilità dello Stato, ma anche l’estremismo religioso, soprattutto di matrice indù e islamica; l’indipendentismo di alcuni territori del nord-est a ridosso del confine con la Cina; le rivolte naxalite di stampo maoista nel centro e nord-est del paese; così come l’autonomismo di diversi territori regionali, i quali, pur rimanendo all’interno dell’Unione Indiana e essendo portatori di legittime richieste, potrebbero ostacolare la crescita interna dello Stato, nonché una sua frammentazione; a questo proposito il caso più importante degli ultimi mesi è quello del Telangana, regione settentrionale dell’Andhra Pradesh che ho visitato personalmente più di un anno fa; l’eventuale nascita di un nuovo Stato, all’interno comunque dell’Unione, potrebbe comportare la medesima richiesta d’autonomia per questioni economiche, etniche e problematiche d’approvigionamento di risorse, principalmente idriche, in diverse zone dello Stato.

Insomma, il ruolo geostrategico contemporaneo dell’India non sembra strettamente connesso né all’universo guidato dagli Stati Uniti, nonostante l’India sia una democrazia che la rende simile ai paesi occidentali, né al sistema di alleanze creato da Russia e Cina, malgrado sia aperto con Mosca e Pechino un importante dialogo per la stabilità in Asia Centrale. L’obiettivo dell’India è dunque quello di essere un polo indipendente capace di garantire la stabilità del continente asiatico mantenendo una posizione il più possibile equilibrata tra i diversi attori regionali e globali. Questa è un’aspirazione che si collega alla particolare posizione geografica del paese, il quale è punto d’incontro tra diverse influenze, culture e religioni; l’India sembra cercare una politica estera autonoma anche per l’aumento negli ultimi anni del nazionalismo indiano che richiede un ruolo di potenza per lo Stato asiatico; questa politica è anche erede del ruolo assunto durante la Guerra Fredda come capofila del Movimento dei Paesi Non Allineati, né aderente al polo guidato dagli Stati Uniti, né strettamente connessa all’Unione Sovietica, nonostante esistesse un rapporto privilegiato con Mosca.

In una fase storica in cui l’area dal Vicino Oriente all’Asia Meridionale è attraversata da una forte competizione tra diversi attori regionali e globali bisognerà comprendere se questa possibile strategia sarà vantaggiosa per l’India al fine di mantenere una sostanziale autonomia non solo a livello geopolitico, ma anche economicamente, rispondendo efficacemente al processo di globalizzazione ispirato dall’Occidente.

Il ruolo dell’India potrebbe cambiare se si verificherà l’adesione, assieme al Pakistan, all’OCS, opzione caldeggiata negli ultimi mesi da Russia e Cina, anche se per il momento sembra un’opzione prematura per Nuova Delhi. In questa fase non è ancora chiara l’adesione completa o meno, dato l’aumentare negli ultimi anni dei legami economici e militari con Washington, ma eventualmente sarebbe un importante fattore geopolitico nell’area e gli scenari futuri saranno certamente molto interessanti anche per un’eventuale normalizzazione dei rapporti indo-pakistani.

In ogni caso ritengo che unitamente a questa autonomia in politica estera, collegandomi al tema principale trattato nel libro di Vincenzo Mungo, l’India ha la possibilità di vincere la sua sfida contemporanea nei confronti della globalizzazione di stampo occidentale grazie alla sua antica cultura. E’ una sfida difficile, ma l’India ha tutte le potenzialità per poter crescere e presentare a livello mondiale un modello concorrenziale e alternativo.

In conclusione, vorrei segnalare che è in uscita l’ultimo numero dell’anno di “Eurasia” dedicato ai paesi del BRICS, nel quale personalmente considero alcuni aspetti dell’aumentata influenza geopolitica indiana che potrebbe essere ostacolata dai paradossi nei rapporti diplomatici con Stati Uniti e Cina, nonché dall’instabilità in diverse aree del paese.

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