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Channel: Progetto Condor – Pagina 26 – IsAG // Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
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I rapporti tra Italia e Iran: T. Graziani e D. Scalea all’IRNA

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Il presidente Tiberio Graziani e il segretario Daniele Scalea sono stati interpellati dall’IRNA, agenzia di stampa iraniana, a proposito dell’andamento dei rapporti tra l’Italia e l’Iran. L’articolo in farsi può essere consultato cliccando qui. Di seguito, le risposte che i due rappresentanti dell’IsAG hanno dato all’intervistatore:

 
È giusto secondo voi che l’Italia segua le politiche guerrafondaie degli Stati Uniti a discapito dei suoi propri interessi nei confronti dell’Iran, in una situazione di stallo se non addirittura di recessione economica, lasciando il posto alle imprese asiatiche e russe dopo tanti sforzi per guadagnarsi un mercato fiorente che dà lavoro anche a migliaia di persone in Italia?

Anche dopo l’inserimento del Patto Atlantico, l’Italia ha cercato a lungo di condurre una politica autonoma nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. Purtroppo, gli artefici di questa linea di politica estera indipendente e “terzomondista” sono quasi tutti finiti male. Mattei e Moro sono stati uccisi, Craxi e Andreotti travolti da scandali giudiziari che ne hanno chiuso la carriera politica anzitempo. E’ così avvenuto che, dall’inizio degli anni ’90, l’Italia si sia allineata docilmente alla linea dettata da Washington. Vale a dire che, proprio nel momento in cui finiva la Guerra Fredda in Europa e cominciava a delinearsi con maggiore chiarezza la divergenza d’interessi tra le due sponde dell’Atlantico, l’Italia ha optato per una rigida disciplina di blocco. Oggi che il nostro paese è preda della speculazione internazionale, d’una grave crisi del debito, e retto da un governo di tecnocrati imposto dall’esterno, è arduo pensare che possa assumere iniziative autonome nella regione. Nei prossimi anni l’Italia sarà ancora più allineata a USA e Israele.

Quanto alle sanzioni, gli imprenditori italiani presenti sul territorio iraniano si preoccupano per il futuro delle loro imprese e affari, perché non possono più firmare alcun contratto con controparte iraniana e vedono sgretolarsi anni di lavoro in quel paese in mano ai Cinesi, Indiani e Russi.
Secondo il ministro Terzi, bisogna accrescere la pressione sull’economia iraniana anche se l’ impatto delle sanzioni sulla nostra economia è un aspetto fondamentale: più le pressioni si accrescono, più la nostra attenzione ed i nostri scrupoli sono evidenti.
Questo mentre l’interscambio commerciale tra i due paesi nel 2010, è arrivato a 7 miliardi di Euro e ora trovare un equilibrio tra politica ed interessi economici non sarà facile; ed è un problema per una diplomazia matura che intende superare la diplomazia del ridere e scherzare.
Lei cosa ne pensa?

Il punto non è conciliare politica ed interessi economici, ma l’interesse nazionale italiano con quello del blocco atlantico, ed in particolare del capoalleanza, gli USA. L’interesse nazionale italiano sarebbe ovviamente quello d’avere buoni rapporti con l’Iran così come con tutti i paesi della regione che va dal Nordafrica al Medio Oriente. L’interesse nazionale italiano è anche che questa regione sia pacifica e stabile, per potervi commerciare e fare affidamento come fonte d’approvvigionamento energetico. Al contrario, gli USA da anni perseguono una linea destabilizzante nell’area. Il problema è che gli USA riescono ad influenzare il governo italiano non solo tramite i contatti bilaterali (e multilaterali nella NATO), ma soprattutto grazie all’azione del loro “soft power”. Washington investe in Italia (come in altri paesi) milioni di euro ogni anno per finanziare istituti di ricerca, fondazioni, gruppi politici, singoli giornalisti o uomini di potere, persino studenti promettenti. Questi milioni di euro spesi sono un investimento, perché garantiscono agli USA un forte favore all’interno della classe dirigente italiana.


Stage in telelavoro

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Chi desidera arricchire il proprio curriculum e bagaglio d’esperienze con l’attività in un prodotto editoriale di tenore scientifico, troverà nell’IsAG un ambiente pronto ad accoglierlo, con percorsi formativi creati su misura per ciascun tirocinante a seconda dei suoi interessi e delle sue ambizioni, nonché la possibilità di svolgere lo stage a distanza tramite Internet. C’è anche la possibilità di convertire lo stage in crediti formativi universitari.
Lo stage si svolge esclusivamente per conto di università ed altri enti convenzionati con l’IsAG. L’Istituto sarà lieto di prendere in considerazione proposte d’ulteriori convenzioni.
In alternativa, è possibile avviare collaborazioni volontarie, non retribuite e a distanza, a seguito delle quali l’IsAG garantirà ai soggetti meritevoli referenze ed attestati.
Per maggiori informazioni consultare il seguente prospetto in pdf: [clicca]

Il presidente T. Graziani commenta le elezioni russe a Sky TG24 e Radio Vaticana

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Tiberio Graziani, presidente dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), è stato invitato a commentare le recenti elezioni russe, ed in particolare il complesso dopo-elezioni, ai microfoni di Radio Vaticana (confrontandosi con Fabrizio Dragosei del “Corriere della Sera”) e Sky TG 24 (ospite in studio durante l’edizione serale).
L’intervista a Radio Vaticana può essere riascoltata cliccando qui. Di seguito le sintesi dei due interventi.

Radio Vaticana

Il presidente Graziani ha fatto notare che al calo di Russia Unita ha fatto da contraltare la crescita del Partito Comunista: il senatore statunitense McCain sbaglia a predire l’arrivo della “primavera araba” in Russia. Negli ultimi anni il presidente russo Medvedev si è concentrato sulle liberalizzazioni e si è appoggiato a tecnocrazie e oligarchie: questo fatto è stato avvertito dagli elettori, che si sono spostati verso Zjuganov. Il futuro presidente Putin dovrà tenerne conto, cosicché il pungolo dei comunisti sarà per lui un valore aggiunto: Zjuganov è una personalità di spessore, uno studioso di geopolitica cui preme innanzi tutto la centralità della Russia nel nuovo scenario multipolare. Con strumenti, metodologie, linguaggi e sensibilità diversi, alla fine è però sinergico alla strategia di Putin. A vincere le elezioni, in ultima analisi, è stata una certa concezione della Russia, proiettata come potenza nel XXI secolo.

Sky TG24

Il presidente Graziani ha affermato che il calo della popolarità di Russia Unita era fisiologica dopo la presidenza di Medvedev, che ha trascurato molti strati sociali critici in omaggio ad una logica tecnocratica e neoliberista. Ma le manifestazioni vanno lette anche come conseguenza del soft power statunitense, vista l’ingerenza di Hillary Clinton negli affari interni russi subito dopo le elezioni. Il discorso statunitense tende prima a screditare il governo del paese-bersaglio, per poi passare alla sollevazione di piazza enfatizzata a livello massmediatico. I casi recenti, da quello jugoslavo a quello libico, insegnano come tali manifestazioni facciano perno su alcune ONG. Questo schema risponde alla logica della geopolitica del caos, alla destabilizzazione di quell’area che dal Mediterraneo va all’Asia Centrale, per separare l’Europa dai suo vicini, per poi giungere alla Russia, il grande obiettivo finale della strategia di Washington. Per quanto riguarda la democrazia russa, non si tratta di una “finta democrazia” ma di una “democrazia autoritaria”, che risente del suo retroterra culturale molto diverso da quello occidentale.

Tiberio Graziani al Forum Innovazioni Italia-Russia

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Tiberio Graziani, presidente dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), ha partecipato al Forum Innovazioni Italia-Russia.

Il Forum, promosso dal Centro di Studi Russi dell’Università “La Sapienza” di Roma in collaborazione con la Fondazione “Russkiy Mir” e l’EURISPES, si è svolto i giorni 12 e 13 dicembre nella Sala del Senato Accademico, presso il Palazzo del Rettorato dell’Università “La Sapienza” di Roma, in Piazza Aldo Moro 5.

Il presidente Graziani ha preso parte all’ultima tavola rotonda tematica che si svolta martedì 13 dalle ore 18.30 alle ore 19.30, sul tema “Italia e Russia nei nuovi assetti geopolitici”. Moderata dal professor Antonio Folco Biagini, ha visto il presidente dell’IsAG Tiberio Graziani confrontarsi con Tatiana Mozel (prorettrice dell’Accademia Diplomatici di Mosca), Anton Ilin (rappresentante europeo di “Russkiy Mir”), Aleksej Turbin (PJSC “Omega”, Transneft) e Gabriele Natalizia (La Sapienza).

Presentiamo di seguito il testo dell’intervento pronunciato dal presidente Tiberio Graziani.
L’INTERVENTO di Tiberio Graziani

La Russia è un interlocutore di primaria importanza per l’Italia, e lo è sotto due punti di vista: uno energetico, ed uno diplomatico. Ma solo per comodità omettiamo qui di citare settori minori, ma non per questo privi di rilievo, nei rapporti bilaterali, come il commercio, il turismo, gli scambi culturali e così via.

Dal punto di vista energetico, il legame è ovvio: da un lato si ha una grande nazione produttrice, dall’altra una nazione territorialmente molto più piccola, ma economicamente grande, che è consumatrice. La Russia possiede una delle dieci maggiori riserve di petrolio, bene di cui è tra i primi produttori ed il primo esportatore mondiale. L’Italia è tra i quindici maggiori consumatori di petrolio, ed il settimo maggiore importatore mondiale. Per quanto riguarda il gas naturale, la Russia possiede un quarto delle riserve mondiali provate, si contende con gli USA la palma di maggior produttore mentre guida la classifica degli esportatori. L’Italia è il quarto maggiore importatore di gas al mondo, dietro solo a USA, Giappone e Germania.
Queste sono statistiche note, ma si possono aggiungere anche altri dati. La Russia ha il 15% delle riserve mondiali di carbone e ne è il terzo maggiore esportatore. Solo Germania e GB in Europa importano più carbone dell’Italia. La Russia è anche il quinto maggiore produttore d’elettricità da fonti rinnovabili, mentre l’Italia è il secondo maggiore importatore mondiale di elettricità: solo gli USA ne acquistano dall’estero più di noi. E tutto ciò malgrado l’Italia abbia un consumo pro capite di elettricità piuttosto basso: siamo al livello della Libia, oltre il quarantesimo posto in una graduatoria mondiale.
Il fato ha voluto che l’Italia fosse distante dalla Russia un paio di migliaia di chilometri, e le recenti generazioni hanno fatto sì che questo spazio fosse coperto da oledotti e gasdotti. Circa il 30% del gas naturale consumato in Italia proviene dalla Russia: si tratta del 35% del gas importato complessivamente.
Alcuni fatti recenti accrescono la dipendenza italiana dagli approvvigionamenti energetici russi. Si tratta di:

    - rinuncia al nucleare: sull’onda emotiva provocata dall’incidente di Fukushima, i cittadini italiani hanno per la seconda volta bocciato la produzione d’energia nucleare in Italia;

 

    - difficoltà nello sviluppo delle fonti rinnovabili: per lanciarsi nelle tecnologie d’avanguardia non serve solo l’inventiva – una dota connaturata all’italiano – ma anche il danaro. Il nostro sistema economico, imperniato sulle PMI, ha molti pregi ma anche punti deboli: imprese piccole e medie hanno minore capacità d’investire nella ricerca e nell’innovazione rispetto alle grandi corporazioni. L’onere della ricerca e sviluppo spetterebbe dunque allo Stato, il quale non appare però nelle condizioni finanziarie ideali per fare grossi investimenti nel campo;

 

    - conflitto libico: un altro nostro grande approvvigionatore energetico vive una fase drammatica e di profonda insicurezza. A seconda dei futuri sviluppi politici, il rapporto privilegiato con l’Italia potrebbe proseguire ma anche interrompersi, a vantaggio, presumibilmente, degli sponsor principali della guerra. Inoltre, le distruzioni provocate dal conflitto si fanno sentire sulla produzione del paese: molti analisti sono scettici sulla prospettiva, proclamata dal governo libico, di recuperare i livelli di produzione ed esportazione pre-bellici per la fine del 2012;

 

    - destabilizzazione del MENA: non solo la Libia, ma in generale tutta quell’area che gli anglosassoni chiamano MENA, ossia il Nordafrica, il Levante ed il Medio Oriente, e che è un altro grande bacino di risorse energetiche, vive una fase di rivolgimenti ed instabilità. Rivolte e cambi di governo o di regime si susseguono, crescono le tensioni inter-etniche ed inter-religiose, s’accumulano venti di guerra tra gli emirati del Golfo e l’Iran, tra la Turchia e la Siria, tra Israele ed altri paesi. Il pericolo di un grave incidente che provochi una pesante diminuzione delle esportazioni petrolifere è ormai elevato.

Questo dovrebbe spingerci ad interrogarci a proposito delle politiche europee, patrocinate – per chiare finalità geopolitiche – da Washington, di differenziazione dell’importazione energetica. Il quadro di cui sopra potrebbe apparire ad alcuni un buon motivo per insistere in tale politica, anzi darle maggiore priorità. Ma si può anche leggere all’inverso: da un lato abbiamo la Russia, che ormai da decenni garantisce un flusso sicuro ed ininterrotto. Dall’altro una regione destabilizzata, frazionata, sull’orlo della guerra, in endemico stato di rivolta; e prospettive futuristiche di nuove tecnologie che però, al momento, sono tutto fuorché una sicurezza.
Mentre i tedeschi si sono già messi al sicuro con la costruzione del Nord Stream, il progetto speculare del South Stream, di cui invece dovrebbe beneficiare principalmente l’Italia, procede ancora a rilento. La realizzazione di quest’opera, che aumenterebbe e renderebbe ancor più sicuri gli approvvigionamenti di gas dalla Russia, andrebbe posta come una priorità strategica per l’Italia. E dunque dovrebbe diventare anche una delle priorità della politica estera del nostro governo. Bisognerebbe anche avere il coraggio di dire che il Nabucco non è un grande affare: non lo è economicamente, come sanno tutti gli operatori, ma non lo è nemmeno strategicamente, almeno per l’Italia. Andare a prendere grosse quantità di gas dal Turkmenistan, probabilmente dall’Iraq, forse dall’Egitto, in prospettiva persino dall’Iran, e farlo transitare nel cuore del Vicino e Medio Oriente, potrebbe essere una buona idea per una grande potenza, ma non certo per una media potenza come l’Italia. Bisogna chiarire una volta per tutte che non basta tracciare una linea d’approvvigionamento e sviluppare le necessarie infrastrutture ed accordi economici. Una volta che la rotta è in funzione, bisogna saperla difendere. E quale influenza, quali capacità di proiezione della sua forza, ha l’Italia rispetto a regioni come il Vicino Oriente, il Caucaso, il Caspio o l’Asia Centrale? La risposta è che dovremmo affidarci agli USA, alla loro capacità e volontà d’intervenire massicciamente in queste aree complesse, che già oggi faticano a domare. Privilegiare il Nabucco rispetto al South Stream sarebbe un azzardo pericoloso, pericolosissimo per l’Italia.

Veniamo in breve al secondo aspetto per cui la Russia è assai rilevante, strategicamente, rispetto all’Italia: quello diplomatico. Una costante della politica estera italiana è sempre stata una certa subalternità. L’unità d’Italia fu realizzata da un piccolo Stato, il Regno di Sardegna, che vi riuscì appoggiandosi alla Francia di Napoleone III (per la conquista della Lombardia e del Centro), alla Gran Bretagna (per quella del Mezzogiorno) ed alla Prussia (per incorporare il Nord-Est e il Lazio). L’Italia unita fu riconosciuta come una grande potenza, sì, ma “l’ultima delle grandi potenze”. E perciò fu sempre alla ricerca di un alleato maggiore cui appoggiarsi. Inizialmente era il Secondo Impero francese; poi, dopo Sedan e le fallite avances rivolte alla Gran Bretagna, fu il Secondo Reich tedesco. Nella Prima Guerra Mondiale si passò all’alleanza con Parigi e Londra, per poi tornare a Berlino negli anni ’30; dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, l’alleato/patrono di riferimento sono diventati gli USA: condizione che perdura ancora oggi.
Tutti questi rapporti sono stati caratterizzati da una dose, più o meno marcata, di subalternità dell’Italia rispetto all’alleato. E Roma, tradizionalmente, ha sempre cercato di controbilanciare questa condizione intrattenendo nel contempo relazioni significative con altri interlocutori di potenza pari o quanto meno paragonabile a quella dell’alleato. Il Regno di Sardegna controbilancia l’influenza dell’alleato francese con l’amicizia britannica; l’Italia alleata dei Tedeschi si concedeva “giri di valzer” con i britannici e francesi; la Repubblica ha in qualche modo cercato di controbilanciare lo strapotere statunitense appoggiandosi all’asse franco-tedesco ed anche, durante il periodo del neoatlantismo in particolare, all’URSS. La Russia mantiene questa fondamentale funzione di appiglio diplomatico, cui ricorrere per controbilanciare l’alleanza, assolutamente asimmetrica e sbilanciata, con Washington.

***

Versione russa:

Для Италии Россия является партнером первостепенного значения по двум пунктам: энергетическому и дипломатическому. Для краткости опускаем здесь менее крупные, но не менее важные для двухсторонних отношений секторы, такие как коммерция, туризм, культурный обмен и т.д.

С точки зрения энергетики связь очевидна: с одной стороны есть большая страна производитель, с другой стороны – территориально гораздо меньшая, но экономически сильная, являющаяся потребителем. Россия владеет одним из наиболее крупных запасов нефти, являясь среди первых производителей и одним из первых мировых экспортеров этого товара. Италия же – среди пятнадцати самых крупных потребителей и седьмая крупнейшая страна-импортер в мире. Что же касается природного газа, то Россия владеет одной четвертой его установленных мировых запасов, соперничая с США за пальму первенства в его производстве и в то же время возглавляя список его экспортеров. Италия – четвертый импортер газа в мире, уступающий лишь США, Японии и Германии.

Это известные статистические данные, к которым можно добавить и другие. Россия владеет 15% мировых запасов угля и является его третьим по величине экспортером. В Европе только Германия и Великобритания импортируют большее количество угля по сравнению с Италией. Россия является также четвертым производителем электричества из возобновляемых источников, и лишь США во всем мире приобретают его больше нас. И все это несмотря на то, что у Италии потребление электричества на человека довольно низкое: мы на уровне Ливии, за сороковым местом в мировой классификации.

Фактически Италия отстоит от России на пару тысяч километров и усердиями последних поколений это пространство на сегодняшний день пронизано нефте- и газопроводами. Около 30% природного газа потребляемого в Италии поступает из России: имеется в виду из 35% импортируемого газа в целом.

Некоторые недавние факты говорят об увеличении зависимость итальянской экономики от энергетического снабжения поступающего из России. Имеются в виду:

отказ от ядерной энергии: в результате эмоциональной волны, вызванной аварией на Фукушиме итальянцы во второй раз проголосовали против производства в Италии атомной энергии;
трудности в развитии возобновляемых источников: для развития новейших технологий нужна не только изобретательность, но и денежные средства. Наша экономическая система базирующаяся на НМТ имеет много достоинств, но и много слабых сторон: малый и средний бизнес обладают меньшими возможностями инвестирования в исследования и инновации по сравнению с большими корпорациями. Бремя исследований следовательно лежит на государстве, которое однако не не имеет возможности осуществлять большие инвестиции в этих областях;
ливийский конфликт: другой наш крупнейший поставщик энергии находится в драмматической ситуации и глубокой нестабильности. В зависимости от будущего развития политики привилегированные отношения с Италией могут продолжиться или же прерваться, возможно в пользу главных спонсоров войны. Кроме того разрушения спровоцированные конфликтом дают о себе знать на производстве страны: многие аналисты скептически относятся к перспективе заявленной ливийским правительством о возвращении к концу 2012 года на довоенный уровень производства и экспортирования;
дестабилизация MEНA: не только Ливия, но в целом и вся эта зона, называемая англосаксонцами MEНA, иначе говоря Северная Африка, страны Ближнего Востока и Средний Восток, являщаяся еще одной крупной зоной энергетических ресурсов находится в фазе переворотов и нестабильности. Чередуются восстания и смены власти или режимов, растет межэтническое и межрелигиозное напряжение, нарастает ветер войны между Эмиратами Залива и Ираном, Турцией и Сирией, Израилем и другими странами, На сегодняшний день велика опасность тяжелого столкновения, которое может спровоцировать сильное уменьшение экспортирования нефти.

Вышесказанное должно заставить нас задуматься о европейской политике, находящейся – по вполне понятным геополитическим причинам – под покровительством Вашингтона дифференциации импортирования энергии. Эта картина некоторым может показаться хорошим поводом для упорствования в этой политике и даже обладающей высокой приоритетностью. Но можно также интерпретировать ее и иначе: с одной стороны у нас есть Россия, которая уже десятилетия гарантирует гарантированную и непрерывную поставку. С другой стороны дестабилизированный, раздробленный регион, находящияся на пороге войны, в эндемическом состоянии восстания; и футуристические перспективы новых технологий, которые однако, на данный момент совсем не дают ощущения безопасности.

В то время как немцам уже обеспечены поставки благодаря строительству NordStream, зеркальный проект SouthStream, из которого должна получить пользу в основном Италия, продвигается медленно. Реализация этого проекта, который увеличил бы поставки газа из России и сделал бы их более безопасными, должна была бы восприниматься как стратегически проритетной для Италии. И следовательно она должна была стать одним из приоритетов внешней политики нашего правительства. Нужно было бы также иметь смелость признать что Nabuccoне является выгодным проектом: ни экономически – и это знают все операторы, ни стратегически, по крайней мере для Италии. Брать большие объемы газа у Туркменистана, вероятно у Ирака, или может быть у Египта, а в перспективе может быть даже и у Ирана, переправлять его через сердце Ближнего и Среднего Востока, могло бы быть хорошей альтернативой для страны большой а не средней политической силы как Италия . Нужно раз и навсегда признать, что не достаточно всего лишь размечать линию поставки и развивать необходимые инфраструктуры и экономические соглашения. После проложения курса нужно уметь его защищать. А какое влияние, какие возможности показа своей мощи имеет Италия в отношении таких регионов как Ближний Восток, Кавказ, зона Каспийского моря или Центральная Азия? Ответ заключается в том, что мы могли бы полагаться на США, на их возможности и желание массового вмешательства в эти сложные регионы, которые уже в настоящее время с трудом подвергаются подавлению. Оказывать предпочтение Nabucco в ущерб SouthStreamбыло бы большим риском, очень опасным для Италии.

Поговорим вкратце о втором аспекте, из-за которого Россия является стратегически очень важной страной для Италии – дипломатическом. Постоянной и характерной чертой внешней политики Италии всегда являлась некоторая подчиненность. Объединение Италии было осуществлено маленьким государством Королевство Сардинии, благодаря поддержке Франции при Наполеоне III (для завоевания Ломбардии и Центральной части полуострова), Великобритании (для завоевания Юга) и Пруссии (для присоединения северо-востока и региона Лацио). Да, Объединенная Италия была признана в качестве государства с большой политической силой, но была «последней среди сильных». Поэтому она всегда искала поддержки более сильного союзника. Вначале союзником была Вторая французская империя; потом, после Седана и неудавшихся авансов Великобритании, союзником стал Второй Рейх Германии. В Первой мировой войне Италия заключила союз с Парижем и Лондоном, а потом перешла к Берлину в 30-ые годы; после поражения во Второй мировой войне союзником/покровителем Италии стали США, состояния, продолжающееся до сих пор.

Все эти дипломатические отношения характеризовалсь более или менее заметной толикой подчиненности Италии по отношению к союзнику. И традиционно Рим всегда пытался уравновесить этот дисбаланс, одновременно строя солидные отношения с другими партнерами, равными по политической мощи или по крайней мере сопоставимыми с союзником. Королевство Сардиния уравновешивает влияние союзника Франции с английской дружбой; Италия, заключившая союз с Германией позволяла себе «кружиться в вальсе» с Великобританией и Францией; Итальянская Республика в какой-то мере постаралась уравновесить слишком сильное влияние США опираясь на фрако-германскую ось, а также на протяжении неоатлантизма в частности, на СССР. Россия сохраняет эту основную функцию дипломатической опоры, к которой можно прибегнуть для уравновешивания безусловно ассиметрического и несбалансированного союза с Вашингтоном.

Перевод с итальянсого Элизео Бертолази

Francesco Brunello Zanitti intervistato da “Il Democratico”

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Francesco Brunello Zanitti, ricercatore dell’IsAG, è stato intervistato da Eleonora Peruccacci per “Il Democratico” a proposito della sua recente opera Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto, pubblicata col marchio dell’Istituto.
L’articolo originale può essere letto cliccando qui. Riproduciamo di seguito l’articolo de “Il Democratico”.

 
Francesco Brunello Zanitti/ Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto di Eleonora Peruccacci

Sempre più spesso Stati Uniti e Israele appaiono come due facce della stessa medaglia, questo perché la loro special relationship è qualcosa che va aldilà di un semplice credo politico, ma arriva quasi al trascendentale. Due nazioni distanti fra loro, per posizione e storia, ma accomunate dall’idea della propria superiorità morale, dalla convinzione che esse siano le “prescelte” e, perciò, entrambe portatrici sane di un “eccezionalismo” di fondo, abbondantemente e continuamente propagandato. Ecco perché Neoconservatori da una parte e Neorevisionisti dall’altra presentano degli elementi che li accomunano. Ma questi elementi bastano, di per sé, a legare le due nazioni? Perché, dunque, gli Stati Uniti sono vicini a un Paese così distante sia culturalmente che geograficamente? Questo è l’aspetto più interessante del libro Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto, poiché evidenzia come gli interessi di questo legame speciale risiedano non solo in questioni “morali”, ma soprattutto economiche. La cosiddetta Israel Lobby, di cui anche Walt e Mearsheimer hanno recentemente parlato in un loro libro, è portatrice di grandi interessi (in termini di pecunia) e spinge affinché Israele non sia minacciata dagli stati arabi confinanti.

L’approccio atlantista è di sicuro effetto fra “Noi Occidentali”, grazie anche ai mezzi di comunicazione che lo supportano: Israele, dopotutto, è l’unico “baluardo occidentale” all’interno di una regione a “connotazione araba”, e noi, gli occidentali, siamo spinti a credere che la difesa di tale territorio sia prioritaria. Dopotutto, dopo la “Liberazione” del 1945, l’Europa si è sempre più sentita “in debito” con uno Stato che non ha mai nascosto il fatto di ritenersi superiore al resto del mondo: gli USA, la nazione bound to lead, ci inducono ad abbracciare e a ritenere giuste le cause che loro stessi abbracciano, anche se i motivi sono economici piuttosto che idealistici. Troppo spesso gli esperti, i vari studiosi, ma anche gli stessi mass media giocano sulla indubbia somiglianza dei concetti “antisemita” e “antisionista”, portando chi ascolta (e troppo spesso non ha conoscenza di ciò di cui si parla) a ritenere che salvare Israele significa salvare il popolo ebraico e che chi critica gli israeliani è, per partito preso, un antisemita. Gli Stati Uniti non sono da meno e, seguendo i propri enormi interessi economici (ricordiamoci che la Lobby ha al suo interno personaggi di spicco del mondo politico statunitense e non solo, e che è in grado di influenzare notevolmente i risultati elettorali all’interno della nazione), incitano l’Occidente alla salvaguardia di Israele. E lo fanno anche se ciò significa l’uccisione di centinaia di innocenti, se implica l’uso smodato della forza militare, o se va contro lo ius cogens. Come è possibile, dunque?

Il libro di Brunello Zanitti è molto interessante perché aiuta il lettore a capire non solo le origini della nascita dei due movimenti politici di riferimento, ma anche perché si addentra nelle dinamiche che la nascita di tali partiti ha creato, offre spiegazioni puntuali rispetto ad avvenimenti storici del passato e apre la strada all’interpretazione dei nuovi possibili scenari futuri.

 
Il tuo libro è molto interessante perché delinea degli elementi comuni fra due movimenti politici distanti fra di loro, non solo geograficamente ma anche ideologicamente. Da una parte un movimento che nasce dalla sinistra democratica disillusa, dall’altra vediamo un movimento ultraconservatore. Come mai hai voluto concentrare la tua analisi su questo argomento? C’è stato qualche particolare elemento o avvenimento, più o meno recente, che ti ha spinto ad approfondire questo tema e a elaborare la tua tesi?

La scelta di questo argomento è dovuta al mio interesse per il conflitto tra israeliani e palestinesi, contraddistinto storicamente da un particolare ruolo svolto dagli Stati Uniti. Alcuni avvenimenti recenti mi hanno spinto ad approfondire questa tematica, ad esempio l’intervento statunitense contro l’Iraq nel 2003 e, pochi anni dopo, la guerra tra Israele e Libano del 2006, così come l’operazione “Piombo Fuso” contro Gaza tra dicembre 2008 e gennaio 2009. In tutti questi eventi di guerra riscontravo una certa somiglianza e una medesima “giustificazione morale”, nonostante i contesti diversi. Gli interventi militari furono favoriti dai gruppi politici al potere a quell’epoca, neoconservatori negli Stati Uniti e destra israeliana neorevisionista nello Stato ebraico. A questo proposito, prendendo spunto da alcuni articoli di autori israeliani e statunitensi che già avevano analizzato le possibili similitudini tra i due movimenti, su tutti, come ricordo nel libro, l’articolo di Ilan Peleg e Paul Scham Israeli Neo-Revisionism and American Neoconservatism: The Unexplored Parallels pubblicato nel 2007 sul “The Middle East Journal”, ho messo a confronto neocons e rappresentanti del Likud, soprattutto per quanto riguarda l’adozione di simili procedure in politica estera. Fermo restando che siano esistiti medesimi obiettivi, soprattutto negli ultimi anni, non ho presentato un disegno cospiratorio o un comune progetto politico. A questo proposito ho utilizzato numerosi articoli, pubblicati nel periodo che va dagli anni ’70 al 2000, nei quali si può individuare il pensiero degli appartenenti a queste correnti. Ho analizzato anche le idee degli intellettuali che successivamente non hanno ricoperto cariche pubbliche nei rispettivi Paesi, ma senza dubbio il loro pensiero politico ha influito decisamente nelle successive scelte in politica estera. La rivista dei neoconservatori “Commentary” è stata fondamentale per comprendere le idee dei due gruppi, diverse a seconda dei contesti storici, la maggior parte delle quali sono state messe coerentemente in pratica, soprattutto tra il 2001 e il 2008.

Vorrei comunque ricordare che un altro aspetto che mi ha spinto ad approfondire l’analisi di questi due movimenti sono stati l’avversione e i pregiudizi che percepivo nei confronti dei musulmani, causati soprattutto dagli eventi dell’11 settembre, ma in generale verso le culture diverse da quella occidentale. Il tema dello “scontro tra civiltà”, paradossalmente favorito dagli stessi neocons a causa della loro ideologia fortemente intrisa da interventismo ad ogni costo (economico e militare), così come dalla percezione di minacce continue, è un aspetto che considero molto importante. Questi due gruppi, non tenendo conto delle differenze culturali e se effettivamente una determinata società ha il desiderio di adottare particolari sistemi di stampo occidentale, hanno favorito questo “scontro” per motivazioni di carattere geopolitico ed economico, nascoste da giustificazioni di tipo morale per il diritto-dovere statunitense e occidentale di esportare il modello corretto e legittimo di società.

Nella tua analisi mi ha colpito il riferimento che fai alla cosiddetta “lobby ebraica”. Se ne è sentito parlare abbastanza di recente con il libro, a cui tu peraltro fai riferimento, di Walt e Mersheimer. Come loro, anche tu abbracci l’idea che questa lobby influenza la politica estera statunitense, sempre rivelatasi filoisraeliana. Fino a che punto ritieni che questa abbia pesato nelle scelte di Washington e perché? Si può affermare che il suo ruolo si è evoluto?

Il sistema politico statunitense consente a diversi gruppi di pressione d’influenzare la politica interna ed estera. Esiste anche la cosiddetta Israel Lobby che influisce sulla politica estera del Paese in Vicino Oriente e ha naturalmente un importante peso in termini elettorali. Nonostante sia una lobby molto potente e organizzata che pubblicizza le proprie azioni, non ritengo sia l’unico gruppo di pressione o il più importante, ma in ogni caso il suo ruolo si è evoluto nel tempo. L’appoggio statunitense nei confronti d’Israele, soprattutto a partire dagli anni ’60 è spiegato in diversi modi e la lobby ha avuto in questo senso un ruolo fondamentale. Nel contesto della Guerra Fredda, lo Stato ebraico rappresentava strategicamente gli interessi del blocco guidato dagli Stati Uniti in Vicino Oriente, contenendo l’ascesa sovietica nell’area, una zona vitale per gli interessi energetici. Israele era considerato un baluardo della democrazia, della libertà e dei valori occidentali contrapposti al comunismo, nonostante l’Unione Sovietica abbia favorito la nascita del paese nel 1948; il legame tra URSS e Israele entrò in crisi per la sempre più stretta relazione israelo-statunitense e per il rapporto privilegiato che Mosca stabilì con alcuni Stati arabi. Nonostante il rapporto di special relationship tra Israele e Stati Uniti, ci sono stati momenti storici in cui alcune amministrazioni statunitensi non hanno avuto una linea totalmente filo-israeliana, come avvenuto durante l’epoca di maggiore influenza neoconservatrice. Fino agli ’70 la comunità ebraica statunitense era tradizionalmente vicina a posizioni liberal più che all’universo rappresentato dal Partito Repubblicano; i neocons criticarono proprio la scarsa politica filo-israeliana del Partito Democratico e per questo motivo si spostarono verso i repubblicani di Ronald Reagan. Esistono altre motivazioni di tipo morale, accentuate dai neocons: si ritiene che Israele sia una democrazia, moralmente superiore ai paesi arabi e circondata da una serie di nemici intenzionati a distruggerlo; Israele condivide i medesimi valori occidentali ed esistono, inoltre, motivazioni di carattere religioso da non sottovalutare. Negli Stati Uniti i sionisti cristiani ritengono necessario un concreto sostegno a Israele poiché la Bibbia attesta l’esistenza dello Stato ebraico come volontà divina.

La seconda comunità ebraica a livello mondiale risiede negli Stati Uniti e anche per questo motivo esercita una considerevole pressione politica. Sarà interessante valutare come agirà Obama in questi mesi in vista delle elezioni del prossimo anno.

Nella tua analisi delinei, con riferimenti ad avvenimenti storici più o meno recenti, quali sono le caratteristiche di questa special relationship fra i due Paesi e come tale rapporto è nato. Questa situazione sembra essersi ben consolidata nel tempo. Quindi, spostandoci alla situazione attuale, come descriveresti i rapporti reciproci fra le due nazioni, in che modo credi che influenzino gli equilibri geopolitici odierni e futuri, e come ritieni che i due movimenti leggano e, eventualmente, influenzino lo scenario politico?

I rapporti tra i due Paesi sono ottimi, testimoniati dalla recente condanna statunitense nei confronti della dichiarazione unilaterale d’indipendenza della Palestina all’ONU. Gli Stati Uniti hanno anche votato contro la presenza della stessa Palestina nell’Unesco.

Nonostante ciò, visto il declino geopolitico degli Stati Uniti e il confronto sempre più aperto con nuovi attori emergenti, in particolare la Cina, in alcuni casi esistono delle visioni in politica estera che sembrano essere discordanti, se si pensa, ad esempio, alle rivolte arabe. Esistono delle pressioni occidentali per l’emergere delle sommosse popolari, pur esistendo un malcontento generale all’interno dei paesi arabi. In questo contesto gli interessi israeliani potrebbero essere messi in discussione, poiché sono stati modificati alcuni scenari che garantivano lo status quo regionale favorevole ad Israele. Questo aspetto è evidente soprattutto per quanto riguarda l’Egitto nel caso in cui prevarranno le componenti islamiste del panorama politico egiziano. Un altro aspetto importante riguarda la Turchia, Paese della NATO e alleato di primo piano degli Stati Uniti nell’area. Washington sta tentando di ricucire i rapporti tra i due alleati, i quali competono per la supremazia geopolitica nell’area. Per quanto riguarda Ankara, si parla recentemente di un possibile intervento in Siria, sostenuto dalla NATO, colpendo allo stesso tempo gli interessi iraniani. Il problema, in ottica israeliana, è il potenziale aumento d’influenza turca nell’area ai danni dello Stato ebraico, il quale osserva negativamente alcuni risvolti del nuovo ruolo “neo-ottomano” assunto dalla Turchia nel Vicino Oriente. Il modello politico turco per le rivolte arabe potrebbe invece essere favorito da Washington.

Israele e Stati Uniti hanno invece una comune percezione della minaccia iraniana, ma lo Stato ebraico sembra più evidentemente propenso all’intervento militare preventivo e unilaterale rispetto all’alleato nordamericano. Nonostante le sanzioni imposte recentemente da Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna, un ipotetico intervento militare è improbabile vista l’avversione dei sempre più influenti BRICS. In ogni caso, il nucleare iraniano è una prospettiva sgradita per l’aumento di potere deterrente dell’Iran nei confronti di Stati Uniti e Israele; allo stesso tempo sarebbe una sfida inaccettabile per l’Arabia Saudita nella contemporanea competizione tra sunniti e sciiti nell’area, nonché una mossa che potrebbe generare una corsa al nucleare in altri Stati del Vicino Oriente.

Per quanto riguarda l’influenza politica dei due movimenti, ritengo che il neorevisionismo, essendo ancora al potere, mantenga la sua costante influenza. Nonostante abbia messo in crisi con la sua ideologia l’asse turco-israeliano, potenziale danno per gli stessi Stati Uniti poiché elemento importante nella concezione geopolitica dell’area da parte statunitense, la radicalizzazione dell’area, vista la situazione in Egitto e in generale nel mondo arabo, così come un eventuale aumento delle tensioni con l’Iran potrebbero comportare il rafforzamento di posizioni più intransigenti e radicali nella società israeliana. Dunque, i partiti della destra hanno buone probabilità di mantenere il potere, nonostante ci siano dei movimenti interni contrari alle politiche di Netanyahu, soprattutto in campo economico.

I neoconservatori, in particolare dopo l’intervento in Iraq, sono in una fase di declino e per le elezioni del 2012 non sembra che il futuro leader che rappresenterà il Partito Repubblicano, visti gli attuali candidati, sarà legato al movimento. L’influenza neoconservatrice è in deciso calo, ma senza dubbio è stato valutato positivamente dai neocons l’intervento militare in Libia. Allo stesso tempo però viene richiesta una decisa azione militare contro Siria e Iran, così come una politica più aggressiva nei confronti della Cina.

Geopolitica. La nuova rivista dell’IsAG

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L’IsAG, col nuovo anno, ha scelto di rafforzare ed ampliare il suo strumento principe. A partire dal 2012 pubblicheremo la nuova rivista ufficiale dell’IsAG, con una moderna veste grafica (vedi a destra la bozza della copertina del primo numero). Si chiamerà GEOPOLITICA. Rivista dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie.

Ci sono alcune cose che però non intendiamo cambiare con questa rivista: il rigore scientifico, l’attenzione centrata sugli scenari a lungo termine, la collaborazione di rinomati studiosi da tutto il mondo. Tutte queste caratteristiche saranno garantite dagli elementi di continuità con la passata esperienza: la direzione di Tiberio Graziani e Daniele Scalea, il lavoro redazionale della squadra di ricercatori dell’IsAG, il Comitato Scientifico composto da esperti internazionali d’alto livello.

La finalità di GEOPOLITICA è la stessa che è alla base dell’esistenza dell’IsAG: diffondere lo studio della geopolitica e stimolare in Italia un ampio e de-ideologizzato dibattito sulla politica estera del nostro paese.

Noi non intendiamo la geopolitica come un semplice sinonimo di “Relazioni internazionali”, ma come una disciplina a se stante. Per la precisione, come un approccio inter-disciplinare alle relazioni internazionali (ed all’interazione tra società umane in genere) che coinvolge le scienze geografiche, storiche, economiche, etnografiche e strategiche. Noi intendiamo la geopolitica come l’analisi delle relazioni internazionali che tiene conto dei fattori geografici, economici, strategici ed antropologici e li verifica con metodo storico. Siamo convinti che questo tipo d’approccio permetta analisi più profonde e previsioni di più lungo periodo. E che esso meriti di trovare un posto di primo piano all’interno del mondo accademico e dei decisori strategici, un posto che attualmente non gli è riconosciuto.

La valorizzazione della geopolitica, così come da noi descritta, non può che portare ad un generale ripensamento della politica estera e della “grande strategia” dell’Italia. Non è solo una questione di approccio analitico, ma anche di adattamento alla nuova realtà storica. La fase unipolare sta terminando e cedendo il passo ad un nuovo ordine multipolare che avanza a grandi falcate. I comportamenti degli Stati e dei popoli in questa fase di transizione deciderà del loro posizionamento e ruolo nel nuovo ordine. L’adozione d’una prospettiva errata, e di atteggiamenti inadeguati, influirà negativamente sul futuro dell’Italia e degl’Italiani per molti decenni. Le vecchie ortodossie atlantiste e le anacronistiche rigidità ideologiche occidento-centriche sono inadeguate alla nuova realtà. È per questo che riteniamo necessario che in Italia si sviluppi un dibattito ampio, libero ed informato sulle nostre future scelte strategiche e di politica estera.

È proprio con questa funzione di stimolo del dibattito all’interno della comunità degli addetti ai lavori e della società civile in generale che l’IsAG continuerà, oltre a pubblicare GEOPOLITICA ed a mantenere un sito d’informazione internazionale, ad organizzare convegni e seminari in giro per l’Italia ed a curare altre pubblicazioni.

Tutto questo è possibile solo grazie agli sforzi volontari d’un gruppo di studiosi che credono nella missione dell’IsAG, e che operano gratuitamente e senza tornaconto economico; è possibile grazie alle donazioni in denaro dei soci e dei benefattori che desiderano aiutarci a realizzare la nostra missione. L’IsAG è infatti un’associazione di promozione sociale senza scopo di lucro. Ecco perché vi chiediamo di aiutarci: vi chiediamo di aiutarci acquistando la nuova rivista GEOPOLITICA e le altre nostre pubblicazioni, associandovi all’IsAG, donando aiuti finanziari o prestando le vostre competenze, capacità e buona volontà al nostro Istituto.

Chiudiamo dandovi appuntamento con la nuova rivista GEOPOLITICA per marzo 2012, quando è programmato il primo numero monografico dedicato ai vent’anni della Federazione Russa. Ci auguriamo di ritrovarvi tutti tra i suoi lettori!

Tiberio Graziani (presidente dell’IsAG e direttore di “Geopolitica”)
Daniele Scalea (segretario scientifico dell’IsAG e co-direttore di “Geopolitica”)

VISITA IL SITO DELLA RIVISTA (clicca qui)

F. Brunello Zanitti presenta il suo libro “Progetti di egemonia” all’IRIB italiana

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Francesco Brunello Zanitti, ricercatore dell’IsAG, è stato intervistato lo scorso 26 dicembre da Radio Italia dell’IRIB a proposito del suo recente libro Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto, pubblicato sotto l’égida dell’IsAG. Seguono l’audio e la trascrizione dell’intervista.

Il dottor Brunello Zanitti è ricercatore dell’IsAG per l’area Asia Meridionale e autore del libro “Progetti di egemonia”. Ci potrebbe spiegare quali sono i temi principali trattati nel suo libro?

Il libro considera un particolare aspetto della speciale relazione esistente tra Stati Uniti e Israele, ovvero lo stretto legame tra il neoconservatorismo statunitense e il neorevisionismo israeliano, due gruppi politici molto influenti nei rispettivi paesi, ma che hanno delle origini molto diverse. La speciale relazione tra Stati Uniti e Israele è stata particolarmente enfatizzata dai protagonisti di questi due movimenti, soprattutto durante l’amministrazione di George W. Bush. Prendendo spunto da alcuni articoli e saggi scritti da autori israeliani e statunitensi che hanno già considerato questo particolare aspetto, il mio libro analizza le principali differenze per quanto riguarda le origini storiche ed ideologiche dei due movimenti, ma anche i difformi retroterra culturali. L’obiettivo fondamentale è la ricerca delle principali similitudini, considerando soprattutto la peculiare visione della politica estera e il ruolo che Stati Uniti e Israele dovrebbero ricoprire a livello mondiale e regionale. Nella mia analisi ho esaminato alcuni aspetti che accomunano questi due gruppi. Ad esempio, un forte nazionalismo, molto più marcato nella destra israeliana, ricordando che il neorevisionismo si collega strettamente al Likud attualmente guidato da Netanyahu. Ci sono poi delle tendenze espansionistiche e militariste molto forti, connesse a un’idea di egemonia mondiale per quanto riguarda gli Stati Uniti e un’idea di egemonia regionale per quanto concerne il neorevisionismo israeliano. Inoltre, c’è una considerazione molto importante che riguarda l’eccezionalismo dei propri paesi rispetto alle altre nazioni, l’idea che Stati Uniti e Israele ricoprano una sorta di compito nell’insegnare alle altre nazioni il corretto sistema politico da adottare. Questo aspetto è collegato all’ideale di esportazione della democrazia, principio molto significativo nel neoconservatorismo americano. Un altro fattore rilevante è l’utilizzo della guerra preventiva, enfatizzata dai neoconservatori soprattutto durante l’intervento in Iraq nel 2003 da parte degli Stati Uniti. Questo ideale di guerra preventiva è connesso alla presenza costante di un nemico. Il neoconservatorismo si sviluppa negli anni ’70 negli Stati Uniti, periodo in cui il nemico era naturalmente il comunismo e l’Unione Sovietica, mentre durante gli anni ’90 e 2000 questo nemico si è trasformato diventando il terrorismo internazionale e i cosiddetti “Stati canaglia” che sponsorizzano il terrorismo di matrice islamica. Per quanto riguarda invece Israele il nemico è sempre stato il mondo arabo e i movimenti palestinesi. Queste costanti minacce a livello mondiale portano i neoconservatori e i neorevisionisti a considerare l’epoca contemporanea simile a quella degli anni ’30, paragonandola al 1938 con possibili ripetizioni di nuove guerre mondiali, da evitare, favorendo non solo una maggiore presenza politica interna dei due gruppi politici negli Stati Uniti e in Israele, ma anche adottando una decisa politica estera, aggressiva e nazionalista.

Se non sbaglio lei evidenzia come gli interessi di questo speciale legame risiedano non solo in questioni morali ma soprattutto in questioni economiche. Giusto?

Sì, anche economiche e geopolitiche. Naturalmente il sistema politico statunitense consente a diversi gruppi di pressione d’influenzare la politica interna ed estera. Questo fattore è sempre stato presente nella storia degli Stati Uniti. A livello economico è molto importante la cosiddetta Israel Lobby che influisce sulla politica estera del paese, non dimenticando che la comunità ebraica negli Stati Uniti è la seconda più importante dopo quella d’Israele. Quindi anche la minoranza ebraica nel paese ha un certo peso e si può osservare come la politica estera statunitense sia legata appunto a collegamenti di tipo morale, ma anche economico. Israele è sempre stato considerato nel Vicino Oriente un baluardo della democrazia, della libertà e dei valori occidentali contrapposti prima al comunismo durante il periodo della Guerra Fredda; in seguito e anche nella fase attuale contrapposto al terrorismo internazionale collegato a motivi di carattere religioso. Nel mio libro considero il fatto che questi elementi siano utilizzati per difendere degli interessi geopolitici ed economici, vista e considerata l’importanza fondamentale dal punto di vista geopolitico dell’area vicino-orientale, se si fa riferimento alle risorse di idrocarburi e alla zona di collegamento tra tre continenti, Asia, Africa ed Europa, rappresentata dal Vicino Oriente.

Lei nella sua analisi fa riferimento alle lobby ebraiche, cioè all’idea che questa lobby influenzi la politica estera statunitense, sempre rivelatasi filo-israeliana. Ci potrebbe spiegare fino a che punto questa abbia pesato nelle scelte di Washington e perché?

La lobby ebraica è una dei gruppi di pressione politica che esistono negli Stati Uniti; però, secondo la mia opinione, non ha avuto un ruolo costante nel tempo. Ad esempio per quanto riguarda alcune epoche storiche degli Stati Uniti, la lobby ebraica si è fatta sentire in maniera diversa. Durante l’epoca neoconservatrice, il legame tra Stati Uniti e Israele si è fatto decisamente sentire e lo abbiamo visto nell’intervento statunitense in Iraq e poi anche nella difesa costante da parte di Washington delle azioni israeliane durante l’intervento in Libano o la guerra contro Gaza tra 2008 e 2009. Però ci sono stati dei periodi storici in cui questo collegamento si è fatto meno sentire. In un certo senso, secondo la mia opinione, alcuni aspetti delle rivolte arabe andrebbero analizzati in maniera più approfondita perché non vedo come l’attuale politica estera statunitense che sembra appoggiare le rivolte arabe possa giovare ad Israele, se si pensa al caso egiziano, dove lo status quo favorevole in un certo senso allo Stato ebraico è stato perso. Un altro caso riguarda l’allontanamento turco-israeliano; la Turchia è un importante alleato degli Stati Uniti nell’area; in questo periodo invece i rapporti tra Israele e Turchia sono in una fase molto delicata. Lo Stato ebraico osserva negativamente il nuovo ruolo “neo-ottomano” assunto dalla Turchia nel Vicino Oriente, mentre il modello turco potrebbe essere visto favorevolmente da Washington per il seguito delle rivolte arabe.

Per la fonte originale dell’intervista cliccare qui.

Il 2011, l’anno delle rivolte arabe: Daniele Scalea all’IRIB

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Daniele Scalea, co-direttore di GEOPOLITICA e segretario scientifico dell’IsAG, è stato intervistato da Radio Italia dell’IRIB (Islamic Republic International Broadcasting) a proposito degli eventi più significativi dell’anno appena passato. Il direttore Scalea ha evidenziato un evento in particolare, le rivolte arabe, sia per la loro importanza oggettiva, sia per la sensazione suscitata nel mondo.
La fonte originale è raggiungibile cliccando qui. Di seguito l’audio e la trascrizione integrale dell’intervista. (Per altro materiale audio-video, raccomandiamo di visitare ed iscriversi al nostro canale YouTube [clicca]).

 

 
Signor Scalea, dal momento che ci troviamo alla fine dell’anno, potrebbe farci un’analisi sugli ultimi sviluppi del mondo?

Di sicuro l’evento più notevole – quello che ha attirato anche più attenzione – sono state le rivolte arabe. Si è trattato in realtà di un ciclo di eventi che ha coinvolto in maniera più o meno profonda tutti i paesi del mondo arabo, e che ha destato molta sensazione anche perché era quasi totalmente inatteso. Fino al 2010 questi paesi apparivano immobili, stagnanti, e quello delle “masse arabe” un mito destinato a non concretizzarsi mai. Invece abbiamo visto cos’è successo nel 2011, e l’attenzione del mondo si è concentrata su questa regione anche per la sua evidentissima importanza strategica, dal momento che ospita una gran parte delle risorse energetiche mondiale.
Diversi commentatori hanno cercato di dare un’interpretazione ai fatti, e presto si è lanciato lo slogan, palesemente celebrativo, della “Primavera araba”, dipinta come un risveglio delle nazioni e dei popoli. Questo risveglio c’è stato, ma siamo ancora in una fase interlocutoria a ben vedere: le rivoluzioni non si sono ancora realizzate appieno. Prendiamo il caso dell’Egitto dove, a mesi di distanza dalle dimissioni di Mubarak, abbiamo ancora un regime di tipo militare e manifestanti ancora in piazza. Anche in Tunisia abbiamo una sorta di regime di transizione. Non è un caso che in tutti quei paesi dove, nominalmente, si sarebbe avuta una “rivoluzione”, una parte della società continua ancora a scendere in piazza e rumoreggiare. Insomma, non sappiamo ancora dove arriverà questa “Primavera araba”. Non dimentichiamoci che la “Primavera europea”, quella del 1848, fu un ciclo rivoluzionario fallimentare, almeno nel breve termine: quasi tutte le rivoluzioni furono presto riassorbite. Non credo che questo sarà totalmente il caso del mondo arabo, ma bisogna comunque tenere conto di questa possibilità.
Nei media occidentali soprattutto si è poi dato molto spazio a quest’interpretazione “romantica” delle rivolte arabe, come fenomeno dovuto all’attività dei giovani collegati tramite i social networks e Internet, desiderosi d’avere democrazia e società modellate sull’esempio occidentale, postmoderno – quindi democrazie liberali parlamentariste, libero mercato, liberalizzazione dei costumi. Tutta questa dimensione è stata plausibilmente presente (ad esempio il ruolo avuto dai social networks nell’organizzazione delle primissime manifestazioni, o le frange liberali ed occidentaliste della società araba), ma la realtà che sta ora emergendo in tutta la sua chiarezza, coi primi risultati elettorali in Marocco, Tunisia ed Egitto, è quella di un “risveglio islamico”. Questo ciclo di rivolte s’inserisce nella dinamica più ampia dell’ascesa del “Islam Politico”, o “islamismo”, a fronte del declinare inesorabile dei regimi e delle ideologie laiche e nazionaliste, che avevano rappresentato il mondo arabo in tutta la fase post-coloniale, anche con una certa vitalità fino agli anni ’70 (salvo degenerare dopo la morte di Nasser ed il fallimento della guerra del 1973). Il fatto che le rivolte arabe andassero inserite in questa dinamica di lungo periodo è un qualcosa di cui pochi si sono accorti in Occidente inizialmente. Mi permetto di notare che uno studio che ho realizzato assieme al mio collega dell’IsAG Pietro Longo, che s’intitola Capire le rivolte arabe ed è stato pubblicato in aprile, è stato uno dei primi libri a mettere in luce quest’altra dimensione prevalente, quella dell’islamismo come chiave di lettura delle rivolte arabe.
Non possiamo però limitarci a valutare la dimensione interna del fenomeno, ma dobbiamo guardare anche a quella esterna, ossia all’influenza avuta dalle potenze extra-regionali sugli avvenimenti. Quest’influenza è stata palese in eventi come quello libico o siriano, un po’ meno evidente ma non assente in Egitto. Qui, come in altri paesi, gli USA, pur continuando ad appoggiare i regimi in carica, sono riusciti ad insinuarsi nell’opposizione e nella società civile, di modo da avere referenti in entrambe le parti e cercare d’uscire comunque vincitori dai rivolgimenti. Da questo fatto derivano anche tesi più estreme, secondo cui tutte le rivolte sarebbero una manovra nell’ombra degli USA per realizzare il progetto del “Grande Medio Oriente”.
La guerra in Libia introduce un altro tema, che è quello dell’Africa. La Libia è il paese che si era fatto promotore dell’Unione Africana, il più ricco del continente per reddito pro capite e risorse. Non a caso è stata la vittima designata d’una rivoluzione che, tra tutte quelle arabe, appare la più etero-diretta, la più promossa dall’esterno. Tant’è vero che non avrebbe avuto successo senza l’intervento della NATO e di altri paesi, soprattutto della Penisola Arabica. Il conflitto libico si può leggere in due modi. Innanzi tutto, un tentativo degli USA e della NATO di respingere la crescente influenza cinese in Africa. Ecco quindi che l’attacco alla Libia assume una nuova luce in rapporto ad altri episodi: l’intervento francese in Costa d’Avorio, quello statunitense in Somalia, l’istituzione di AFRICOM, un comando militare della NATO riservato al teatro africano.
La seconda chiave di lettura del conflitto libico ci porta alle dinamiche interne alla NATO, ed al maggior ruolo che gli USA stanno accordando agli alleati “subalterni”, come la Francia, la Gran Bretagna e la Turchia. Gli USA attraversano una fase di crisi economica, e nel tentativo di mantenere la loro egemonia ricorrono ad un espediente già adottato in passato (vedi il dopo-guerra in Vietnam): affidarsi a potenze intermedie regionali come “stampelle” della loro preponderanza globale. Ovviamente il rovescio della medaglia è che a queste potenze vanno lasciati degli spazi di autonomia che prima non c’erano, e ciò alla lunga può rivelarsi controproducente: crea infatti tutta una serie di tensioni all’interno del blocco atlantico, come quella tra Francia e Turchia, entrambe in cerca d’un ruolo egemonico nel Mediterraneo. La Turchia si è schierata contro il governo in Libia solo quando ha capito che i Francesi sarebbero riusciti a promuovere una guerra che avrebbe rovesciato Gheddafi; così come il cambiamento radicale della politica turca verso la Siria è avvenuto più o meno in concomitanza con l’attacco alla Libia, presumibilmente anche per anticipare un prevedibile intervento francese contro Damasco.


Portaerei USA nel Golfo Persico: Tiberio Graziani all’IRNA

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Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di Geopolitica, è stato intervistato dall’IRNA (agenzia di stampa ufficiale della Repubblica Islamica d’Iran) a proposito delle recenti tensioni tra Tehran e Washington, in particolare in relazione al transito d’una portaerei statunitense nel Golfo Persico.
Interpellato dall’agenzia iraniana, Graziani ha notato come l’evento s’inserisca nel quadro della destabilizzazione dell’area che, ormai da un decennio, gli USA portano avanti assieme a Francia e Gran Bretagna.
Il lancio d’agenzia è consultabile cliccando qui.

“Primavera araba” o “risveglio islamico”? D. Scalea a Cagliari

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Daniele Scalea, segretario scientifico dell’IsAG e con-direttore di Geopolitica, è stato ospite delle associazioni culturali “Caravella” e “Vico San Lucifero” alla conferenza “Primavera araba” o “risveglio islamico”?, svoltasi a Cagliari venerdì 20 gennaio 2012, alle ore 18.30, presso il Centro Iniziative Sociali di Piazza del Carmine 4.

Moderata da Federica Poddighe, la conferenza ha visto Daniele Scalea, co-autore di Capire le rivolte arabe, intervenire e dibattere col pubblico sul tema. Presenti nella sala gremita circa ottanta persone, che hanno partecipato ponendo numerose domande.

L’evento è stato coperto dai principali media locali. “L’Unione Sarda” e “Sardegna 24″ hanno segnalato la conferenza, mentre Videolina ha inviato una troupe per filmare alcuni minuti della conferenza e realizzare un’intervista al segretario Scalea.

Di seguito, alcune foto dell’evento:

 

Daniele Scalea e Federica Poddighe

Daniele Scalea e Federica Poddighe


Federica Poddighe introduce il relatore

Federica Poddighe introduce alla conferenza


Il pubblico in sala

Il pubblico in sala


Daniele Scalea intervistato da Videolina

Daniele Scalea intervistato da Videolina


Daniele Scalea intervistato da Videolina

Daniele Scalea intervistato da Videolina

“Scenari globali per il 2012″ a Milano

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Il prevedibile ritorno di Putin al Cremlino, l’integrazione eurasiatica, la contesa sino-statunitense nel Pacifico, le conseguenze delle rivolte arabe, il peso crescente delle terre rare: questi sono solo alcuni degli argomenti che affrontati durante l’incontro Scenari globali per il 2012.
Organizzato dall’associazione culturale “Millennium” in collaborazione con IsAG e GEOPOLITICA, l’evento si è tenuto alle ore 16.00 di sabato 28 gennaio a Milano, nella cornice confortevole ed informale offerta dal Victory Café di Via Castel Morrone 1/A.
Ad intervenire sui temi proposti e discuterne col pubblico presente erano due rappresentanti dell’IsAG: il segretario scientifico e con-direttore di GEOPOLITICA Daniele Scalea ed il ricercatore associato Enrico Verga.
Il con-direttore Scalea è anche autore di due libri, La sfida totale e Capire le rivolte arabe, mentre il dottor Verga ha pubblicato articoli sulle risorse minerarie strategiche ne Il Sole 24 Ore e in Libero.
Proponiamo di seguito il testo dell’intervento del dott. Scalea.

 

Scenari globali per il 2012: come sta cambiando il mondo

di Daniele Scalea

Non si può parlare di scenari globali per il 2012, senza partire da quanto accaduto nel 2011. Inutile dire che l’anno scorso sarà ricordato come quello delle rivolte arabe. Vi sono due prospettive da cui si può osservarle: una interna ed una esterna.

Dall’interno, è evidente che nel mondo arabo si era giunti ad un punto di rottura causato da squilibri socio-economici, ma anche da tensioni politiche. La tensione fondamentale è quella tra le ideologie, i partiti ed i governi cosiddetti “laici” (un termine che nel mondo islamico non può avere lo stesso significato che da noi) ed i loro corrispondenti religiosi. I laici hanno egemonizzato il panorama arabo, e musulmano in genere, nell’epoca post-coloniale (malgrado significative eccezioni come l’Arabia Saudita wahhabita). Ma non hanno mantenuto le loro promesse: non hanno conseguito l’unità araba, non hanno realizzato il socialismo o comunque il progresso economico, non hanno saputo affrontare Israele. Nel corso dei decenni hanno finito per degenerare in regimi piccolo-nazionali, auto-referenziali e cleptocratici. Sullo sfondo, si è avuta l’ascesa degl’islamisti, già resa evidente alcuni anni fa dalla vittoria elettorale di Hamas in Palestina – o ancora prima dalla Rivoluzione Islamica in Iran, o dalla diffusione delle madrasse wahhabite nel mondo.

Dall’esterno, non si può ignorare l’ingerenza delle grandi potenze, su tutte gli USA. È vero che gli USA erano gli sponsor principali di gran parte dei regimi arabi, ma pure che nel contempo si erano insinuati nelle società civili di quegli stessi paesi, finanziando e manipolando gruppi e movimenti d’opposizione. È lo schema delle “rivoluzioni colorate”, che vede all’opera sedicenti ONG statunitensi – capeggiate dal National Endowment for Democracy – e vere e proprie agenzie federali di Washington, come USAID. Sarebbe semplicistico ridurre le rivolte arabe a rivoluzioni colorate, ma sarebbe ingenuo ignorare anche questa dimensione esogena. Ancor più evidente è il ruolo degli USA e d’alcuni loro alleati nella destabilizzazione di paesi come la Libia e la Siria.

Il ruolo perturbatore di Washington nella regione è un segnale di forza e di debolezza nello stesso tempo. È un segnale di forza perché ha dimostrato di poter ancora incidere sulle dinamiche regionali. È un segnale di forza perché, destabilizzando l’area, si creano infiniti casus belli potenziali per intervenire militarmente, laddove lo riterrà opportuno, sulla scia del modello Libia, col pretesto del R2P (“diritto di proteggere”). È un segnale di debolezza perché Washington si affida in maniera crescente agli alleati subalterni, dalla Francia alla Gran Bretagna alla Turchia: un po’ come fece dopo il Vietnam, nel momento difficile cerca d’appoggiarsi sulle medie potenze come stampelle delle sua egemonia. È un segnale di debolezza perché ha comunque dovuto accettare il cambiamento nella regione, anche a costo di scontentare Arabia Saudita e Israele (seppur solo parzialmente), ed anche a rischio di creare, nel cuore del mondo musulmano, un blocco compatto di paesi controllato dai Fratelli Musulmani (che potrebbe presto estendersi dalla Tunisia alla Giordania, dalla Turchia al Sudan, passando per Libia, Egitto e Siria).

Ma è un segnale di debolezza, soprattutto, perché destabilizza una regione prima di ridurne il peso nella propria equazione strategica. Non c’è la forza di lasciare un “Grande Medio Oriente” stabile e rigidamente filo-atlantico, e perciò si ricorre alla “geopolitica del caos”. Nella fattispecie, si mira a creare uno scontro insanabile tra sunniti e sciiti, ed un reciproco bilanciamento tra Turchia, Iran, Arabia Saudita e fors’anche Egitto (una situazione che metterebbe al sicuro pure Israele).

Il recente riesame strategico annunciato da Obama, infatti, prevede non solo quella che Jalife-Rahme ha definito “deglobalizzazione militare” – per l’appunto, la riduzione delle guarnigioni ed armate USA nel mondo, ma anche la loro rilocalizzazione nella regione Asia-Pacifico. Oltre alla difficoltà di mantenere una presenza militare globale, vi sono due motivazioni dietro questa decisione. La prima è il probabile declinare del peso strategico di Nordafrica e Vicino Oriente nei prossimi decenni. Negli USA si stanno trovando grosse riserve di gas e petrolio di scisto: allo stato attuale sono difficili da sfruttare appieno, ma con una serie di progressi tecnologici potrebbero garantire al paese la piena autosufficienza energetica. Tanto più che pure le riserve d’idrocarburi del vicino e fidato Canada sono costantemente riviste al rialzo: l’Artico potrebbe divenire un nuovo perno geostrategico. La seconda considerazione, ovviamente, è l’ascesa della Cina, che Washington spera di contenere controllando i “choke points” (come lo Stretto di Malacca) da cui giungono i vitali approvvigionamenti per Pechino, ed appoggiandosi all’India ed al Giappone come contrappresi locali alla potenza cinese.

Ma il contenimento della Cina passa anche per l’Africa. Negli ultimi anni Pechino è stata protagonista di una profonda e capillare penetrazione economica nel continente nero, basata su rapporti commerciali, prestiti ed aiuti giudicati più equi rispetto a quelli occidentali. La NATO ha risposto con l’istituzione d’un comando militare ad hoc, AFRICOM, e con una politica aggressiva. L’attacco alla Libia, grande sponsor dell’Unione Africana, va guardato nel contesto del contemporaneo intervento armato francese in Costa d’Avorio, della secessione del Sud Sudan dalla Khartum filo-cinese, e dei bombardamenti dei droni statunitensi in Somalia. Gli atlantici vogliono riprendersi l’Africa con la forza.

Perché la Cina fa così paura? Militarmente è ancora indietro rispetto agli USA, soprattutto in termini di capacità offensiva (o “proiezione di potenza”, come si dice oggi eufemisticamente), ma sta facendo passi da gigante. È riuscita a sviluppare una sua portaerei ed un suo aereo stealth: basi “qualitative” per una successiva espansione “quantitativa”. Ma è soprattutto economicamente che Pechino fa paura a Washington. Tutti sanno che la Cina cresce a ritmi forsennati e pare destinata a superare gli USA; ma l’utilizzo dell’ingannevole PIL nominale porta a credere che questo sia un evento ancora relativamente lontano nel tempo. Non è così. Il PIL a parità di potere d’acquisto della Cina nel 2010 equivaleva al 70% di quello statunitense. Stiamo parlando d’una differenza di poco più di 4000 miliardi di dollari internazionali: nello scorso decennio Pechino ne ha recuperati 2500 circa a Washington. In questo sarà ancora più rapida, perché la crisi morde gli USA più della Cina. Malgrado le fosche previsioni su un drammatico rallentamento della crescita cinese dovuta all’esplodere della bolla immobiliare nel paese, i dati continuano a confermarsi rassicuranti. Secondo l’economista Attilio Folliero, è questione di attendere 5 o 6 anni appena per avere il sorpasso del PIL cinese su quello statunitense.

Un’altra tendenza rafforzata dalla crisi finanziaria del 2008 è la regionalizzazione economica. Gli ultimi mesi hanno visto la nascita dell’Unione Eurasiatica, del CELC e dell’UNASUR, organismi che mirano all’integrazione rispettivamente dell’ex URSS, dell’America Latina e del Sudamerica. Si potrebbe includere l’Unione Africana, ma dopo la morte di Gheddafi è claudicante. E l’Unione Europea, capostipite degli organismi integrati regionali, sembra sul punto d’implodere.

La tendenza alla regionalizzazione è qualcosa che già si sperimentò dopo la grande crisi precedente, quella del 1929; ed anche dopo quella ancora precedente, del 1873. La crisi economica del 1873 inaugurò la cosiddetta “età dell’imperialismo”, in cui le grandi potenze cercavano di crearsi propri imperi coloniali parzialmente chiusi ai commerci ed investimenti altrui. Negli anni ’30 del secolo scorso, la Germania creò un sistema economico chiuso, fondato sul baratto internazionale, in Europa Centro-Orientale; proprio mentre Francia e Gran Bretagna ingrandivano i propri imperi e il Giappone proponeva una “sfera di co-prosperità asiatica”. Oggi, oltre alla nascita di organismi regionali integrati, vediamo molti paesi cominciare a compensare i propri scambi non più attraverso il dollaro, ma le valute nazionali: è il caso di Russia e Cina o Cina e Giappone. Si tratta di un brutto guaio per gli USA, che devono molta della loro potenza a quella che Henry Liu ha definito “l’egemonia del dollaro”. Dopo Bretton Woods, hanno legato la propria moneta al petrolio, riuscendo a mantenerla come valuta di riserva internazionale senza nemmeno avere più la scocciatura della convertibilità aurea. E così hanno potuto, e possono, stampare carta e distribuirla al mondo in cambio di merci reali.

Corsi e ricorsi storici. Non è quella della regionalizzazione economica la sola analogia tra l’oggi ed il post-1929. Oggi come allora, vediamo una crescita del ruolo dello Stato nell’economia. Ma oggi come allora, con diverse modalità e diversi risultati. Alcuni paesi, come la Cina (e per certi versi gli USA) oggi, o la Germania e l’URSS allora, puntano su politiche espansive che, quando non rilanciano l’economia, quanto meno la sorreggono. Altri, come l’Unione Europea, scelgono invece politiche depressive. Lo Stato non interviene per dare spinta e liquidità all’economia: interviene invece per prendere liquidità, tassando i produttori per redistribuire il denaro ai grandi rentier (nella fattispecie, banche e fondi). Nel post-1929 questa politica miope e corporativistica portò alla grande depressione. Che il 2012 sarà un anno di recessione per buona parte dell’UE, ormai è conclamato.

Il 1929, tra l’altro, ci dà un’altra lezione. Ossia che il peggio non arriva subito. Wall Street crollò nell’ottobre 1929, ma la bancarotta della Creditanstalt (l’evento che davvero fece precipitare la situazione) data al 1931. Il crollo di Wall Street è di fine 2008, ma sembra che il peggio stia arrivando solo ora, nel 2012. Forse ci si era illusi sperando che l’odierna Creditanstalt sarebbe stata la Lehman Brothers, con le conseguenze tutto sommato miti sull’economia globale (se la si paragona a quanto accaduto ottant’anni fa).

È proprio vero il detto che chi non conosce la storia, è condannato a ripeterla. Sembra d’assistere ad una riedizione degli eventi post-1929. E vogliamo dirla tutta? Il 1929 sfociò alfine nella Seconda Guerra Mondiale. Consiglio ai nostri dirigenti di studiare la storia, prima che sia troppo tardi per non doverla ripercorrere fino in fondo…

L’esperienza dei paesi BRICS per l’Italia: Tiberio Graziani a “La Voce della Russia”

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Il 22 febbraio 2012 Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di “Geopolitica”, è stato intervistato da “La Voce della Russia” a proposito della conferenza “BRICS: opportunità economiche per l’Italia nel nuovo contesto multipolare”.

“La Voce della Russia” è l’edizione italiana della radio internazionale della Federazione Russa. La conferenza in questione è stata organizzata dall’IsAG, editore di “Geopolitica”, ed ha avuto luogo a Roma il successivo 24 febbraio.

Di seguito l’audio-video e la trascrizione testuale del servizio curato da Olga Dubickaja e contenente l’intervista al presidente Graziani. Molti altri video sono disponibili sulla nostra pagina YouTube (clicca).

 

Il 24 febbraio a Roma si terra’ una conferenza dedicata ai paesi del gruppo BRICS. La conferenza, alla quale parteciperanno economisti, politologi e rappresentanti delle istituzioni statali del Brasile, Russia, India, Cina e Repubblica Sudafricana, e’ stata promossa dall’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausialiarie. Sentiamo un servizio a cura di Olga Dubitskaja.

La data e il luogo della conferenza non sono casuali: l’Italia potrebbe essere interessata all’esperienza dei paesi che hanno raggiunto un’impressionante dinamica di sviluppo e sono ormai diventati dei nuovi centri geopolitici. Dello scopo dell’iniziativa ci ha parlato il promotore della conferenza Tiberio Graziani, presidente dell’ Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausialiarie e redattore della rivista “Geopolitica”:

“La conferenza sui paesi BRICS ha lo scopo di sensibilizzare il mondo politico, economico e militare italiano in merito alle opportunita’ offerte dai paesi BRICS. Poiche’ questi paesi proprio in questo contesto molto particolare, che attraversa il mondo finanziario ed economico globale, hanno dimostrato un dinamismo eccezionale, per cui le economie di questi paesi offrono delle opportunita’ importanti al livello storico proprio in questo frangente all’Italia e all’Europa intera. Oltre a queste opportunita’ economiche per l’Italia e per l’Europa noi riteniamo che ce ne siano anche altre, in quanto ci troviamo in una fase storica particolare che e’ quella della transizione da un sistema unipolare a guida statunitense a un sistema multipolare. I paesi BRICS per come sono collegati, coordinati, possono rappresentare una valida alternativa al sistema unipolare e costituire i mattoni del nuovo ordinamento multipolare.”

Secondo il dottor Graziani, il mondo sta diventando multipolare e questa evoluzione del sistema portera’ inevitabilmente a una revisione di tutto l’ordinamento internazionale e, forse, del modello della civilta’ umana: all’individualismo occidentale potrebbe subentrare la filosofia collettivistica tipica delle culture orientali:

“E’ vero: il coordinamento tra i paesi BRICS e’ un coordinamento molto recente, pero’ ha introdotto gia’ al livello del diritto internazionale una nuova modalita’ per quanto riguarda la cooperazione. Questi paesi non pongono al centro della loro cooperazione sostanzialmente un modello che potremmo definire indivialista, modello che mira alla regolamentazione mondiale come viene fino ad oggi concepita, vale a dire la “global governance” di scuola anglo-statunitense. I paesi BRICS sembrano introdurre un nuovo modello di cooperazione multipolare di tipo che possiamo definire “solidarista”. Tanto e’ vero che al centro nei vari forum e summit fatti in ambito BRICS viene sempre portato avanti il concetto della non-ingerenza. E questo lo abbiamo visto anche ultimamente quando insieme in un forum i paesi BRICS hanno chiesto, per esempio, una nuova ridefinizione dell’ONU, e sono anche interessati di alcune problematiche legate alle tensioni mondiali. Questo loro interessamento sulle questioni piu’ calde del pianeta, come per esempio il Vicino Oriente, fa ipotizzare l’idea che i paesi BRICS si stanno consolidando come coordinamento e si muovono ovviamente al di fuori di istituzioni come l’ONU, che sono nate dopo la Seconda guerra mondiale, che quindi sono delle istituzioni legate a un sistema bipolare. Ora non siamo piu’ in un sistema bipolare, siamo in un sistema di transizione, e quindi e’ chiaro che i paesi emergenti che hanno un dinamismo economico molto forte cerchino di organizzarsi con nuovi modi.”

Alla conferenza di Roma i rappresentanti delle istituzioni statali dei paesi BRICS e gli esperti italiani discuteranno diversi aspetti della cooperazione economica, politica e militare.

Avete ascoltato il servizio di Olga Dubitskaya.

BRICS e opportunità economiche per l’Italia: la conferenza di Roma

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BRICS. Opportunità economiche per l’Italia nel nuovo contesto multipolare

Conferenza a Roma con i rappresentanti delle cinque ambasciate BRICS

Venerdì 24 febbraio 2012 si è tenuta a Roma, presso la sede dello studio legale NCTM, la conferenza “BRICS: opportunità economiche per l’Italia nel nuovo contesto multipolare”, organizzato da IsAG, NCTM e ISIAMED.
Sono disponibili ai link seguenti:

• Brochure con programma completo dell’evento [leggi]

Esperienza dei paesi BRICS per l’Italia: intervista a Tiberio Graziani da “La Voce della Russia”, 22 febbraio 2012 [leggi];

• Cronaca della conferenza di Francesca Malizia, pubblicata il 29 febbraio 2012 sul sito di Geopolitica [leggi];

BRICS, nuovo ordine economico mondiale e modernizzazione della Russia, testo dell’intervento di Aleksandr Zezjulin pubblicato l’11 aprile 2012 sul sito di Geopolitica [leggi];

Ascesa e modernizzazione militare dei BRICS, testo dell’intervento di Francesco Lombardi pubblicato il 15 aprile 2012 dal sito di Geopolitica [leggi];

Le ambizioni del club dei BRICS: intervista a Tiberio Graziani da “Il Sole 24 Ore”, 19 marzo 2012 [leggi]

“Turchia: un paese tra Oriente e Occidente”. G. Guarini allo Shenker Institute

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Lunedì 27 febbraio 2012 è stata inaugurata presso lo Shenker Culture Club di Piazza di Spagna 66 in Roma la mostra fotografica Turchia: un paese tra Oriente e Occidente, che proseguirà fino al 30 aprile.

L’inaugurazione è avvenuta tramite una lezione tenuta dal filosofo Gianluca Bocchi (Università di Bergamo), con un’intervista a Roberto Menotti del Aspen Institute. Hanno introdotto Barbara Santoro (presidente Shenker; Roberto Panzarani (presidente Studio Panzarani & Associates) e Guido Gambetta (responsabile progetto editoriale sulla Turchia per l’Università di Bologna). E’ intervenuto come ospite speciale anche Giacomo Guarini, ricercatore associato dell’IsAG.

Di seguito l’intervento del nostro ricercatore associato dott. Giacomo Guarini ed alcune foto dell’evento.

 
Buonasera a tutti,

vi ringrazio sentitamente per avermi permesso di essere qui a discutere di un paese di estremo interesse, anche secondo una prospettiva geopolitica, che è quella dalla quale mi è stato chiesto di provare a fornire elementi utili.
Il primo rilievo che possiamo fare può derivare dal dato geografico-culturale espresso nel titolo di quest’incontro: la Turchia è un paese fra Oriente ed Occidente. Di più, è una penisola che è snodo fondamentale per la sua collocazione in rapporto alla massa continentale eurasiatica – guardando quindi ad un ipotetico asse Est-Ovest – ma è anche elemento di raccordo vitale di direttrici Nord-Sud, quali l’incontro fra le opposte sponde del Mediterraneo, nonché di collegamento fra lo stesso Mar Mediterraneo ed il Mar Nero.
La questione sulla quale vorrei dunque soffermarmi in questo breve intervento è: quanto la Turchia è andata mutando il proprio rapporto con questo suo “destino geografico”, il cui elemento maggiormente evidente è – abbiamo visto – la natura di crocevia di una pluralità di assi fondamentali? E in che misura, quindi, il paese può sfruttare le potenzialità e compensare le debolezze derivanti dalla propria collocazione geografica?

Il parterre dei relatori (Giacomo Guarini è il primo da destra)Il tempo non permette una disamina storica dei rapporti che la Repubblica turca ha instaurato sin dalla sua nascita con i propri vicini e con le grandi potenze del globo, tuttavia possiamo rilevare come, fra alti e bassi, la storia della Turchia moderna abbia visto per decenni il paese fondamentalmente legato al blocco occidentale, in una forma che non le permetteva di esprimere a pieno la sua natura di ponte fra diversi mondi ed anche un ruolo consolidato di potenza regionale che diversi fattori – e non da ultimo quello geografico, qui continuamente accennato – avrebbero potuto garantirle. La fine della Guerra Fredda ha sicuramente spinto il paese verso la ricerca di una nuova proiezione nella propria area geografica di riferimento, ma è effettivamente nei primi anni del nuovo secolo che abbiamo visto emergere vistosamente segni di discontinuità forte rispetto ai decenni passati, con quella congiuntura politico-istituzionale che ha portato ad affermarsi alla guida del paese tre figure-chiave:

  • Abdullah Gül: eletto come Primo Ministro per il partito Akp nelle elezioni legislative del 2002, rassegnerà le dimissioni nel 2003 per lasciare il posto al suo compagno di partito Erdoğan. Nel 2007 verrà nominato Presidente della Repubblica Turca;
  • Recep Tayyip Erdoğan: verrà riconfermato come Primo Ministro con larga preferenza anche alle ultime elezioni del 2011;
  • Ahmet Davutoğlu: politologo, diverrà prima consigliere di Erdoğan e poi Ministro degli Esteri nel 2009.

Cosa cambia con l’affermazione di questi uomini politici nelle relazioni del paese e nello sviluppo delle sue potenzialità dal punto di vista della politica estera e collocazione geopolitica?

Evidente è al riguardo l’influenza data dalle idee di Davutoğlu come teorico e professore universitario; idee che hanno trovato più immediata ed organica espressione nell’opera “Profondità strategica”, nonché nel motto ormai più che celebre di “zero problemi con i vicini”. Una nuova visione strategica è dunque emersa negli ultimi anni; una strategia basata sul tentativo di ristabilire buoni rapporti di vicinato che facessero da apripista ad una rinnovata influenza economica, politica e strategica di Ankara sui paesi vicini e su quello spazio in larga parte già di pertinenza ottomana (da cui la ripresa dell’espressione “neo-ottomanesimo”, già utilizzata al tempo della crisi di Cipro). Segnali eloquenti di simili spinte sono stati diversi: il divieto di uso di basi militari sul proprio suolo per la guerra in Iraq, l’impegno diplomatico nel Balcani, i tentativi di distensione con l’Armenia, l’ostilità verso Israele a partire dalla questione palestinese, la ricerca di mediazione sulla questione nucleare iraniana e così via.

I buoni rapporti che Erdoğan stava intessendo con alcuni governi vicini, in particolare quelli di Gheddafi e di Assad, sono stati però sacrificati per assecondare la sconvolgente ondata delle rivolte arabe e per non farsi estromettere, ma anzi inserirsi, fra quelle potenze globali e regionali che su più fronti – dalla copertura mediatica fino all’intervento militare – hanno sostenuto simili fenomeni di ribellione anti-governativa; ciò evidentemente al fine di tener testa ai rivolgimenti regionali, cercando di limitarne gli effetti destabilizzanti potenzialmente gravi e, laddove possibile, trarne finanche vantaggio. La scelta del governo turco di scaricare i governi oggetto di proteste nell’area è stata sicuramente sofferta e meditata (di certo più che non per i principali attori esterni intervenuti a sostegno delle rivolte nel Mediterraneo): segni di tale ‘sofferenza’ sono stati un timido richiamo al rispetto della sovranità durante le proteste in Egitto, il rifiuto di intervento militare nello scenario libico e l’invito ad attuare le riforme in Siria; segni poi ai quali sono seguiti bruschi cambi di posizione concretizzatisi rispettivamente nella richiesta a Mubarak di lasciare il potere, nella partecipazione all’intervento militare in Libia e nell’attivo impegno contro il governo di Assad su più fronti. Una simile strategia sembra aver pagato, almeno in parte e nel breve periodo, dal momento che si è a più riprese parlato in Egitto e Tunisia di “modello turco” (con tutti gli interrogativi che simili prese di posizione, nonché la stessa astratta definizione di “modello turco”, comportano) dopo il fruttuoso viaggio di Erdoğan fra i paesi nordafricani attraversati dalle rivolte, il quale ha costituito anche occasione di una rinnovata spinta nelle relazioni economiche e di cooperazione nell’area.

I recenti fenomeni di destabilizzazione della regione rappresentano ancora oggi fattori di grande incognita nei loro sviluppi, nonostante abbiano sicuramente perso l’appeal mediatico di alcuni mesi fa; quale ruolo possiamo auspicare per la Turchia in questo contesto, a partire da una prospettiva che guardi tanto alla stabilità dell’area, quanto al consolidamento della Turchia stessa come potenza regionale e – non da ultimo – alla tutela e al consolidamento invece degli interessi del nostro paese?

Un momento dell'incontroBisogna anzitutto ribadire che i rivolgimenti in corso non hanno ancora prodotto nuovi assetti pienamente consolidati e che il rischio che emergano piuttosto nuove ed ampie forme di conflittualità è molto elevato, in un’area che era già altamente instabile. Forme di conflittualità etniche, confessionali e sociali potranno infatti seguire a quello sconvolgimento degli assetti di potere che vede un’inevitabile ascesa dell’Islam politico, in particolare – ma non solo – con le diverse espressioni della Fratellanza Musulmana che assumono ruoli molto influenti nella vita politica e civile dei paesi attraversati da regime change realizzati o, per ora, solo tentati. E d’altronde la stessa Fratellanza rappresenta una forza tutt’altro che monolitica, le cui linee politiche direttrici nell’immediato futuro sono ancora ampiamente indecifrabili. A coronare l’imprevedibilità di questi scenari quanto mai incerti vi è la forte presenza di attori regionali o globali (fra le fila del blocco occidentale e delle monarchie del Golfo, come ricordato in nota), il cui attivismo in scenari quali quello siriano o iraniano rischia di condurre a situazioni di crisi incontrollabile non solo nella regione vicinorientale, ma finanche a livello globale. In questo contesto la Turchia potrebbe effettivamente dare un importante contributo alla stabilizzazione, perseguendo in ciò un proprio interesse primario a causa della sua posizione geografica di penisola ‘immersa’ nell’area in questione. A tal fine la Turchia dovrebbe attuare ogni sforzo possibile per scongiurare contrapposizioni nette e per non lasciarvisi coinvolgere; molto vi sarebbe da dire al riguardo, ad esempio, sulla gestione turca della crisi siriana, la quale poteva essere condotta molto meglio, senza così forti ingerenze negli affari interni del paese vicino e assumendo una posizione maggiormente bilanciata rispetto alle istanze delle grandi potenze continentali russa e cinese: per quanto paradossale ciò possa sembrare, un simile atteggiamento avrebbe probabilmente permesso una gestione molto più efficace della crisi, anche se ciò avrebbe sicuramente significato per la Turchia dover tener testa a forti pressioni esterne. E così anche sulla questione iraniana, nella quale i segnali che provengono da Ankara non sono ancora netti, la Turchia dovrebbe impegnarsi nel cercare una mediazione con un vicino così importante dal punto di vista strategico, economico ed energetico, come d’altronde ha già tentato di fare con il tentativo di mediazione sulla questione nucleare iraniana nel 2010, trovando in quell’occasione sponda nel Brasile; un’operazione risultata infine infruttuosa, ma non di certo, a mio parere, a causa dei due soggetti mediatori, né dello stesso Iran.

Negli scenari di crisi menzionati, ed in altri possibili della regione, non gioverebbe alla Turchia costituire l’avamposto armato delle istanze più aggressive del blocco occidentale o anche, in ogni caso, base di destabilizzazione delle realtà ad esso avverse nell’area. E’ invece in virtù del “destino geografico”, ricordato in apertura, che la Turchia dovrebbe cercare di valorizzare la propria funzione di elemento di cerniera ed armonizzazione delle aree di cui è crocevia. Una posizione sicuramente difficile da tenere, in una fase di alta tensione fra blocchi contrapposti come quella attuale, e tuttavia è questa la posizione che probabilmente con più generosità potrebbe ripagare la Turchia e l’intera area, se Ankara consolidasse un atteggiamento di incontro, più che di scontro di civiltà.

Da ultimo, ed in conclusione, vorrei accennare alla situazione del nostro stesso paese nell’area. L’afferenza dell’Italia al blocco occidentale ed euro-atlantico porta spesso a farci dimenticare la nostra realtà geografica di penisola distesa sul Mediterraneo. Possiamo sentirci europei, ma – piaccia o meno – non possiamo dimenticare di essere anche mediterranei, pena la condanna di subire passivamente, come effettivamente è avvenuto e sta avvenendo a causa delle rivolte arabe, i contraccolpi più duri di simili fenomeni di destabilizzazione. Per il nostro paese, proprio il rafforzamento dell’integrazione e della cooperazione con la realtà turca può rappresentare una leva fondamentale, per cominciare a ritagliare crescenti margini di autonomia in quest’area. Essa infatti ne rappresenta il naturale spazio di riferimento secondo una prospettiva geopolitica, anche se purtroppo la zona mediterranea e vicinorientale continuano a costituire oggetto soltanto di iniziative sporadiche ed estemporanee. Non invece di una visione strategica e di ampio respiro, come sarebbe necessario.

Grazie per l’attenzione.

1) Ci si riferisce a paesi del blocco occidentale come a quelli della penisola arabica. Fra i primi, fondamentale è stato l’impegno del paese-guida, gli USA, e di potenze euro-occidentali quali Francia ed Inghilterra; fra i secondi l’Arabia Saudita come soggetto egemone della penisola, ma anche il Qatar e – a ruota – le altre ‘petro-monarchie’.

Le ambizioni del club dei BRICS: il presidente Graziani su “Il Sole 24 Ore”

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Il prestigioso quotidiano economico Il Sole 24 Ore, all’interno della sua edizione di lunedì 19 marzo, ha dedicato un lungo articolo a Le ambizioni del club dei Brics, in vista dell’imminente summit delle cinque nazioni. Al BRICS ed alle opportunità economiche che offre l’Italia l’IsAG e Geopolitica hanno recentemente dedicato un convegno a Roma.

Nell’articolo l’autrice Chiara Bussi raccoglie le opinioni d’alcuni esperti internazionali, tra cui Jim O’Neill (inventore dell’acronimo) e proprio Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di Geopolitica. Ecco l’estratto con le dichiarazione di Graziani:

In parallelo con la loro metamorfosi economica prosegue, lenta ma inarrestabile, la trasformazione in un nuovo soggetto politico. La svolta è scattata nel 2006 a margine dell’Assemblea generale dell’Onu. Poi è arrivato il primo summit, organizzato dalla Russia nel luglio 2009. Il terzo vertice in Cina nel 2011 ha segnato un’ulteriore evoluzione, quando il club si è allargato al Sudafrica ed è diventato Brics. «I cinque – spiega Tiberio Graziani, presidente dell’Istituto di Alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie (Isag) – hanno preso posizione sui temi della sicurezza internazionale, come il terrorismo e l’andamento del conflitto in Libia, hanno votato per il riconoscimento della Palestina in ambito Unesco e richiesto la riforma del Consiglio di sicurezza dell’Onu». Dal prossimo anno i Brics peseranno di più anche nel Fondo monetario internazionale: in virtù della riforma delle quote Cina, Brasile, India e Russia figureranno fra i dieci principali azionisti.

Nel frattempo il loro potere si rafforza anche in ambito del G20, dove tengono riunioni prima dell’avvio ufficiale dei lavori. Come quello di Cannes dello scorso novembre, quando i Brics (che detengono nei loro forzieri più di un terzo delle riserve mondiali in valuta estera) si sono detti disponibili a mettere mano al portafogli per aumentare la dote del Fmi per arginare la crisi del debito nell’Eurozona. Ma a patto che a fare il primo passo siano i Paesi europei, finora ben lontani da un accordo.
Accanto alla spinta di rinnovamento nelle organizzazioni mondiali, nate quando il sistema era bipolare, i “big five” – fa notare Graziani – «stanno creando altri tavoli paralleli, mattoni per un nuovo sistema multipolare». Ne è un esempio il dibattito sulla nuova Banca dei Brics, sollecitato dall’India a margine dell’ultimo summit del G20 a Città del Messico. Un istituto multilaterale finanziato interamente dai Paesi in via di sviluppo per progetti a loro destinati.

La versione integrale dell’articolo può essere letta cliccando qui (HTML) o qui (PDF).


Francesco Brunello Zanitti intervistato da “Il Democratico”

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Francesco Brunello Zanitti, ricercatore dell’IsAG, è stato intervistato da Eleonora Peruccacci per “Il Democratico” a proposito della sua recente opera Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto, pubblicata col marchio dell’Istituto.
L’articolo originale può essere letto cliccando qui. Riproduciamo di seguito l’articolo de “Il Democratico”.

 
Francesco Brunello Zanitti/ Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto di Eleonora Peruccacci

Sempre più spesso Stati Uniti e Israele appaiono come due facce della stessa medaglia, questo perché la loro special relationship è qualcosa che va aldilà di un semplice credo politico, ma arriva quasi al trascendentale. Due nazioni distanti fra loro, per posizione e storia, ma accomunate dall’idea della propria superiorità morale, dalla convinzione che esse siano le “prescelte” e, perciò, entrambe portatrici sane di un “eccezionalismo” di fondo, abbondantemente e continuamente propagandato. Ecco perché Neoconservatori da una parte e Neorevisionisti dall’altra presentano degli elementi che li accomunano. Ma questi elementi bastano, di per sé, a legare le due nazioni? Perché, dunque, gli Stati Uniti sono vicini a un Paese così distante sia culturalmente che geograficamente? Questo è l’aspetto più interessante del libro Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto, poiché evidenzia come gli interessi di questo legame speciale risiedano non solo in questioni “morali”, ma soprattutto economiche. La cosiddetta Israel Lobby, di cui anche Walt e Mearsheimer hanno recentemente parlato in un loro libro, è portatrice di grandi interessi (in termini di pecunia) e spinge affinché Israele non sia minacciata dagli stati arabi confinanti.

L’approccio atlantista è di sicuro effetto fra “Noi Occidentali”, grazie anche ai mezzi di comunicazione che lo supportano: Israele, dopotutto, è l’unico “baluardo occidentale” all’interno di una regione a “connotazione araba”, e noi, gli occidentali, siamo spinti a credere che la difesa di tale territorio sia prioritaria. Dopotutto, dopo la “Liberazione” del 1945, l’Europa si è sempre più sentita “in debito” con uno Stato che non ha mai nascosto il fatto di ritenersi superiore al resto del mondo: gli USA, la nazione bound to lead, ci inducono ad abbracciare e a ritenere giuste le cause che loro stessi abbracciano, anche se i motivi sono economici piuttosto che idealistici. Troppo spesso gli esperti, i vari studiosi, ma anche gli stessi mass media giocano sulla indubbia somiglianza dei concetti “antisemita” e “antisionista”, portando chi ascolta (e troppo spesso non ha conoscenza di ciò di cui si parla) a ritenere che salvare Israele significa salvare il popolo ebraico e che chi critica gli israeliani è, per partito preso, un antisemita. Gli Stati Uniti non sono da meno e, seguendo i propri enormi interessi economici (ricordiamoci che la Lobby ha al suo interno personaggi di spicco del mondo politico statunitense e non solo, e che è in grado di influenzare notevolmente i risultati elettorali all’interno della nazione), incitano l’Occidente alla salvaguardia di Israele. E lo fanno anche se ciò significa l’uccisione di centinaia di innocenti, se implica l’uso smodato della forza militare, o se va contro lo ius cogens. Come è possibile, dunque?

Il libro di Brunello Zanitti è molto interessante perché aiuta il lettore a capire non solo le origini della nascita dei due movimenti politici di riferimento, ma anche perché si addentra nelle dinamiche che la nascita di tali partiti ha creato, offre spiegazioni puntuali rispetto ad avvenimenti storici del passato e apre la strada all’interpretazione dei nuovi possibili scenari futuri.

 
Il tuo libro è molto interessante perché delinea degli elementi comuni fra due movimenti politici distanti fra di loro, non solo geograficamente ma anche ideologicamente. Da una parte un movimento che nasce dalla sinistra democratica disillusa, dall’altra vediamo un movimento ultraconservatore. Come mai hai voluto concentrare la tua analisi su questo argomento? C’è stato qualche particolare elemento o avvenimento, più o meno recente, che ti ha spinto ad approfondire questo tema e a elaborare la tua tesi?

La scelta di questo argomento è dovuta al mio interesse per il conflitto tra israeliani e palestinesi, contraddistinto storicamente da un particolare ruolo svolto dagli Stati Uniti. Alcuni avvenimenti recenti mi hanno spinto ad approfondire questa tematica, ad esempio l’intervento statunitense contro l’Iraq nel 2003 e, pochi anni dopo, la guerra tra Israele e Libano del 2006, così come l’operazione “Piombo Fuso” contro Gaza tra dicembre 2008 e gennaio 2009. In tutti questi eventi di guerra riscontravo una certa somiglianza e una medesima “giustificazione morale”, nonostante i contesti diversi. Gli interventi militari furono favoriti dai gruppi politici al potere a quell’epoca, neoconservatori negli Stati Uniti e destra israeliana neorevisionista nello Stato ebraico. A questo proposito, prendendo spunto da alcuni articoli di autori israeliani e statunitensi che già avevano analizzato le possibili similitudini tra i due movimenti, su tutti, come ricordo nel libro, l’articolo di Ilan Peleg e Paul Scham Israeli Neo-Revisionism and American Neoconservatism: The Unexplored Parallels pubblicato nel 2007 sul “The Middle East Journal”, ho messo a confronto neocons e rappresentanti del Likud, soprattutto per quanto riguarda l’adozione di simili procedure in politica estera. Fermo restando che siano esistiti medesimi obiettivi, soprattutto negli ultimi anni, non ho presentato un disegno cospiratorio o un comune progetto politico. A questo proposito ho utilizzato numerosi articoli, pubblicati nel periodo che va dagli anni ’70 al 2000, nei quali si può individuare il pensiero degli appartenenti a queste correnti. Ho analizzato anche le idee degli intellettuali che successivamente non hanno ricoperto cariche pubbliche nei rispettivi Paesi, ma senza dubbio il loro pensiero politico ha influito decisamente nelle successive scelte in politica estera. La rivista dei neoconservatori “Commentary” è stata fondamentale per comprendere le idee dei due gruppi, diverse a seconda dei contesti storici, la maggior parte delle quali sono state messe coerentemente in pratica, soprattutto tra il 2001 e il 2008.

Vorrei comunque ricordare che un altro aspetto che mi ha spinto ad approfondire l’analisi di questi due movimenti sono stati l’avversione e i pregiudizi che percepivo nei confronti dei musulmani, causati soprattutto dagli eventi dell’11 settembre, ma in generale verso le culture diverse da quella occidentale. Il tema dello “scontro tra civiltà”, paradossalmente favorito dagli stessi neocons a causa della loro ideologia fortemente intrisa da interventismo ad ogni costo (economico e militare), così come dalla percezione di minacce continue, è un aspetto che considero molto importante. Questi due gruppi, non tenendo conto delle differenze culturali e se effettivamente una determinata società ha il desiderio di adottare particolari sistemi di stampo occidentale, hanno favorito questo “scontro” per motivazioni di carattere geopolitico ed economico, nascoste da giustificazioni di tipo morale per il diritto-dovere statunitense e occidentale di esportare il modello corretto e legittimo di società.

Nella tua analisi mi ha colpito il riferimento che fai alla cosiddetta “lobby ebraica”. Se ne è sentito parlare abbastanza di recente con il libro, a cui tu peraltro fai riferimento, di Walt e Mersheimer. Come loro, anche tu abbracci l’idea che questa lobby influenza la politica estera statunitense, sempre rivelatasi filoisraeliana. Fino a che punto ritieni che questa abbia pesato nelle scelte di Washington e perché? Si può affermare che il suo ruolo si è evoluto?

Il sistema politico statunitense consente a diversi gruppi di pressione d’influenzare la politica interna ed estera. Esiste anche la cosiddetta Israel Lobby che influisce sulla politica estera del Paese in Vicino Oriente e ha naturalmente un importante peso in termini elettorali. Nonostante sia una lobby molto potente e organizzata che pubblicizza le proprie azioni, non ritengo sia l’unico gruppo di pressione o il più importante, ma in ogni caso il suo ruolo si è evoluto nel tempo. L’appoggio statunitense nei confronti d’Israele, soprattutto a partire dagli anni ’60 è spiegato in diversi modi e la lobby ha avuto in questo senso un ruolo fondamentale. Nel contesto della Guerra Fredda, lo Stato ebraico rappresentava strategicamente gli interessi del blocco guidato dagli Stati Uniti in Vicino Oriente, contenendo l’ascesa sovietica nell’area, una zona vitale per gli interessi energetici. Israele era considerato un baluardo della democrazia, della libertà e dei valori occidentali contrapposti al comunismo, nonostante l’Unione Sovietica abbia favorito la nascita del paese nel 1948; il legame tra URSS e Israele entrò in crisi per la sempre più stretta relazione israelo-statunitense e per il rapporto privilegiato che Mosca stabilì con alcuni Stati arabi. Nonostante il rapporto di special relationship tra Israele e Stati Uniti, ci sono stati momenti storici in cui alcune amministrazioni statunitensi non hanno avuto una linea totalmente filo-israeliana, come avvenuto durante l’epoca di maggiore influenza neoconservatrice. Fino agli ’70 la comunità ebraica statunitense era tradizionalmente vicina a posizioni liberal più che all’universo rappresentato dal Partito Repubblicano; i neocons criticarono proprio la scarsa politica filo-israeliana del Partito Democratico e per questo motivo si spostarono verso i repubblicani di Ronald Reagan. Esistono altre motivazioni di tipo morale, accentuate dai neocons: si ritiene che Israele sia una democrazia, moralmente superiore ai paesi arabi e circondata da una serie di nemici intenzionati a distruggerlo; Israele condivide i medesimi valori occidentali ed esistono, inoltre, motivazioni di carattere religioso da non sottovalutare. Negli Stati Uniti i sionisti cristiani ritengono necessario un concreto sostegno a Israele poiché la Bibbia attesta l’esistenza dello Stato ebraico come volontà divina.

La seconda comunità ebraica a livello mondiale risiede negli Stati Uniti e anche per questo motivo esercita una considerevole pressione politica. Sarà interessante valutare come agirà Obama in questi mesi in vista delle elezioni del prossimo anno.

Nella tua analisi delinei, con riferimenti ad avvenimenti storici più o meno recenti, quali sono le caratteristiche di questa special relationship fra i due Paesi e come tale rapporto è nato. Questa situazione sembra essersi ben consolidata nel tempo. Quindi, spostandoci alla situazione attuale, come descriveresti i rapporti reciproci fra le due nazioni, in che modo credi che influenzino gli equilibri geopolitici odierni e futuri, e come ritieni che i due movimenti leggano e, eventualmente, influenzino lo scenario politico?

I rapporti tra i due Paesi sono ottimi, testimoniati dalla recente condanna statunitense nei confronti della dichiarazione unilaterale d’indipendenza della Palestina all’ONU. Gli Stati Uniti hanno anche votato contro la presenza della stessa Palestina nell’Unesco.

Nonostante ciò, visto il declino geopolitico degli Stati Uniti e il confronto sempre più aperto con nuovi attori emergenti, in particolare la Cina, in alcuni casi esistono delle visioni in politica estera che sembrano essere discordanti, se si pensa, ad esempio, alle rivolte arabe. Esistono delle pressioni occidentali per l’emergere delle sommosse popolari, pur esistendo un malcontento generale all’interno dei paesi arabi. In questo contesto gli interessi israeliani potrebbero essere messi in discussione, poiché sono stati modificati alcuni scenari che garantivano lo status quo regionale favorevole ad Israele. Questo aspetto è evidente soprattutto per quanto riguarda l’Egitto nel caso in cui prevarranno le componenti islamiste del panorama politico egiziano. Un altro aspetto importante riguarda la Turchia, Paese della NATO e alleato di primo piano degli Stati Uniti nell’area. Washington sta tentando di ricucire i rapporti tra i due alleati, i quali competono per la supremazia geopolitica nell’area. Per quanto riguarda Ankara, si parla recentemente di un possibile intervento in Siria, sostenuto dalla NATO, colpendo allo stesso tempo gli interessi iraniani. Il problema, in ottica israeliana, è il potenziale aumento d’influenza turca nell’area ai danni dello Stato ebraico, il quale osserva negativamente alcuni risvolti del nuovo ruolo “neo-ottomano” assunto dalla Turchia nel Vicino Oriente. Il modello politico turco per le rivolte arabe potrebbe invece essere favorito da Washington.

Israele e Stati Uniti hanno invece una comune percezione della minaccia iraniana, ma lo Stato ebraico sembra più evidentemente propenso all’intervento militare preventivo e unilaterale rispetto all’alleato nordamericano. Nonostante le sanzioni imposte recentemente da Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna, un ipotetico intervento militare è improbabile vista l’avversione dei sempre più influenti BRICS. In ogni caso, il nucleare iraniano è una prospettiva sgradita per l’aumento di potere deterrente dell’Iran nei confronti di Stati Uniti e Israele; allo stesso tempo sarebbe una sfida inaccettabile per l’Arabia Saudita nella contemporanea competizione tra sunniti e sciiti nell’area, nonché una mossa che potrebbe generare una corsa al nucleare in altri Stati del Vicino Oriente.

Per quanto riguarda l’influenza politica dei due movimenti, ritengo che il neorevisionismo, essendo ancora al potere, mantenga la sua costante influenza. Nonostante abbia messo in crisi con la sua ideologia l’asse turco-israeliano, potenziale danno per gli stessi Stati Uniti poiché elemento importante nella concezione geopolitica dell’area da parte statunitense, la radicalizzazione dell’area, vista la situazione in Egitto e in generale nel mondo arabo, così come un eventuale aumento delle tensioni con l’Iran potrebbero comportare il rafforzamento di posizioni più intransigenti e radicali nella società israeliana. Dunque, i partiti della destra hanno buone probabilità di mantenere il potere, nonostante ci siano dei movimenti interni contrari alle politiche di Netanyahu, soprattutto in campo economico.

I neoconservatori, in particolare dopo l’intervento in Iraq, sono in una fase di declino e per le elezioni del 2012 non sembra che il futuro leader che rappresenterà il Partito Repubblicano, visti gli attuali candidati, sarà legato al movimento. L’influenza neoconservatrice è in deciso calo, ma senza dubbio è stato valutato positivamente dai neocons l’intervento militare in Libia. Allo stesso tempo però viene richiesta una decisa azione militare contro Siria e Iran, così come una politica più aggressiva nei confronti della Cina.

Le ambizioni del club dei BRICS: il presidente Graziani su “Il Sole 24 Ore”

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Il prestigioso quotidiano economico Il Sole 24 Ore, all’interno della sua edizione di lunedì 19 marzo, ha dedicato un lungo articolo a Le ambizioni del club dei Brics, in vista dell’imminente summit delle cinque nazioni. Al BRICS ed alle opportunità economiche che offre l’Italia l’IsAG e Geopolitica hanno recentemente dedicato un convegno a Roma.

Nell’articolo l’autrice Chiara Bussi raccoglie le opinioni d’alcuni esperti internazionali, tra cui Jim O’Neill (inventore dell’acronimo) e proprio Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di Geopolitica. Ecco l’estratto con le dichiarazione di Graziani:

In parallelo con la loro metamorfosi economica prosegue, lenta ma inarrestabile, la trasformazione in un nuovo soggetto politico. La svolta è scattata nel 2006 a margine dell’Assemblea generale dell’Onu. Poi è arrivato il primo summit, organizzato dalla Russia nel luglio 2009. Il terzo vertice in Cina nel 2011 ha segnato un’ulteriore evoluzione, quando il club si è allargato al Sudafrica ed è diventato Brics. «I cinque – spiega Tiberio Graziani, presidente dell’Istituto di Alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie (Isag) – hanno preso posizione sui temi della sicurezza internazionale, come il terrorismo e l’andamento del conflitto in Libia, hanno votato per il riconoscimento della Palestina in ambito Unesco e richiesto la riforma del Consiglio di sicurezza dell’Onu». Dal prossimo anno i Brics peseranno di più anche nel Fondo monetario internazionale: in virtù della riforma delle quote Cina, Brasile, India e Russia figureranno fra i dieci principali azionisti.

Nel frattempo il loro potere si rafforza anche in ambito del G20, dove tengono riunioni prima dell’avvio ufficiale dei lavori. Come quello di Cannes dello scorso novembre, quando i Brics (che detengono nei loro forzieri più di un terzo delle riserve mondiali in valuta estera) si sono detti disponibili a mettere mano al portafogli per aumentare la dote del Fmi per arginare la crisi del debito nell’Eurozona. Ma a patto che a fare il primo passo siano i Paesi europei, finora ben lontani da un accordo.
Accanto alla spinta di rinnovamento nelle organizzazioni mondiali, nate quando il sistema era bipolare, i “big five” – fa notare Graziani – «stanno creando altri tavoli paralleli, mattoni per un nuovo sistema multipolare». Ne è un esempio il dibattito sulla nuova Banca dei Brics, sollecitato dall’India a margine dell’ultimo summit del G20 a Città del Messico. Un istituto multilaterale finanziato interamente dai Paesi in via di sviluppo per progetti a loro destinati.

La versione integrale dell’articolo può essere letta cliccando qui (HTML) o qui (PDF).

Vent’anni di Russia

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Nel dicembre 1991 gli Accordi di Belaveža e i Protocolli di Alma Ata sancivano lo scioglimento dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Il giorno 12, con la ratifica da parte del Consiglio Supremo, nasceva ufficialmente la Federazione Russa indipendente. A distanza di vent’anni da quegli eventi cruciali non solo per i destini d’una nazione, ma per il mondo intero ed i suoi equilibri geopolitici, “Geopolitica” ha scelto di dedicare il suo primissimo numero all’analisi di quelli che sono stati i primi tormentati due decenni di vita della Federazione Russa, quale lo stato attuale e quali le prospettive per il futuro. Proprio mentre Vladimir Putin si riappresta a reinsediarsi al Cremlino.

SOMMARIO – Editoriale: La Federazione Russa alla prova del multipolarismo: Tiberio Graziani | Focus: Vent’anni di Russia | Vent’anni senza l’URSS: risultati geopolitici, bellici e strategici per la Russia: Vagif A. Gusejnov | La cooperazione tra la Russia e l’Unione Europea: Aleksandr V. Gruško | Il nuovo ordine mondiale ed il rapporto russo-europeo: Natalija A. Narochnickaja | Intervista a Sergio Romano: Giacomo Guarini | Investimenti destinazione Russia: Eleonora Ambrosi | La Russia e l’integrazione post-sovietica: dalla CSI all’Unione Eurasiatica: Mahdi Darius Nazemroaya e Nailya Okda | Il ventennio post-URSS del Caucaso: la Russia in bilico: Marilisa Lorusso | Il divorzio tra Russia e Ucraina: Vladimir A. Dergachëv | 1991-2011: vent’anni di strategie in Asia Centrale: Marco Ferrentino | Russia e Asia Centrale a vent’anni dalla fine dell’URSS: Fabrizio Vielmini | Stanno nascendo delle shatterbelts nel cuore dell’Eurasia?: Phil Kelly | Intervista a S.E. Almaz N. Khamzayev: Luca Bionda e Konstantin Zavinovskij | Kazakistan: opportunità d’investimento per le imprese italiane: Luca Bionda | La direttrice “Pacifico” nella politica statunitense e la Russia: Armen G. Oganesjan | L’unione fa la forza: Russia e Cina assieme per costruire un mondo multipolare: Konstantin Zavinovskij | Un piede sul Mediterraneo. Le relazioni privilegiate di Russia e Siria nel passaggio dal bipolarismo al multipolarismo globale: Giovanni Andriolo | Le relazioni tra Federazione Russa e Asia Meridionale: Francesco Brunello Zanitti | Declino demografico russo: la soluzione è nella crescita: Alexandre Latsa | L’impatto delle politiche neoliberiste in Russia dopo il crollo dell’URSS: Eliseo Bertolasi | Putin: atto terzo: Stefano Grazioli | L’Orso russo sulla Scacchiera di Brzezinski: Alfredo Musto | La Russia secondo il “modello delle civiltà”: Paese in bilico o civiltà originale?: Alessio Stilo | Orizzonti: La crisi strutturale nordamericana ed il nuovo sistema multicentrico: Marcelo Gullo | Afghanistan: i dubbi del dopo Bonn 2011: Michail A. Konarovskij | La “fine della storia” o un rinnovato paradigma di sviluppo?: Pavel Provincev

Geopolitica, vol. I, n°. 1 .: Vent’anni di Russia
Prezzo: 22,00€

Editore: Editore: Avatar Éditions & IsAG
Data di Pubblicazione: Primavera 2012
Pagine: 276

Dimensioni (cm): 15,6 x 23,4
ISBN/EAN: 9781907847097

Articoli di T. Graziani e D. Scalea in “Contexto Mundial” di marzo

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Articoli del presidente Tiberio Graziani e del segretario scientifico Daniele Scalea sono apparsi nell’ultimo numero di Contexto Mundial, l’inserto mensile dedicato alla politica internazionale del quotidiano argentino Primera Edicion di Misiones.

L’ultimo numero, pubblicato il 25 marzo 2012 col titolo Hipótesis de Conflicto, è aperto dall’articolo di Tiberio Graziani La Federación Rusa en la prueba del multipolarismo, seguito da quello di Daniele Scalea intolato Escenarios globales para 2012: cómo está cambiando el mundo.

L’articolo di T. Graziani è un’anteprima in lingua spagnola dell’editoriale del primo numero (attualmente in corso di stampa) di Geopolitica, la rivista dell’IsAG. Il contributo di D. Scalea è già apparso in lingua italiana sul sito di Geopolitica.

Contexto Mundial, diretto da Guillerme Baez, ha un Consiglio Accademico composto da sette membri, tra i quali proprio T. Graziani e D. Scalea, Oltre ad essi il Consiglio annovera anche Carlos Pereyra Mele, Miguel Angel Barrios e Luiz Alberto Moniz Bandeira, membri anche del Comitato Scientifico di Geopolitica, rivista dell’IsAG.

 
L’ultimo numero di “Contexto Mundial” in formato pdf può essere scaricato cliccando qui.

Siria e media italiani: Tiberio Graziani su “RT”

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Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di Geopolitica, è stato interpellato dal canale televisivo transnazionale RT in lingua spagnola a proposito dell’atteggiamento dei media italiani verso la crisi siriana.

Il presidente Graziani ha spiegato come, al di là delle versioni edulcorate e propagandistiche, la crisi siriana, al pari d’ogni altro conflitto, sia sempre un conflitto fondato su interessi tangibili. In questo caso si tratta di cercare di rimpiazzare in Siria un governo filo-iraniano con uno più vicino alle petromonarchie del Golfo ed alla NATO. Cina e Russia, che mirano ad un mondo multipolare e dunque equilibrato, cercano d’opporsi ad un evento che rafforzerebbe Washington nella regione.

La fonte originale è raggiungibile cliccando qui. Di seguito il video integrale del servizio di RT:


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