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Channel: Progetto Condor – Pagina 26 – IsAG // Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie
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“La crisi siriana”: Giacomo Guarini a Ville di Fano

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Sabato 1 Settembre Giacomo Guarini, ricercatore associato dell’IsAG e redattore di “Geopolitica”, ha animato la conferenza “La crisi siriana. I fattori strategici: la destabilizzazione e il ruolo dei media” tenutasi a Ville di Fano, a cura dell’Associazione delle Colline in collaborazione con l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) e l’associazione culturale Identità Europea.

Il relatore ha cominciato il suo intervento trattando dell’atteggiamento dei media nella rappresentazione della crisi siriana. Dopo alcuni cenni sulla situazione civile e politica del paese e sugli sconvolgimenti subentrati a seguito della crisi, si è inquadrato il ruolo della Siria nello scenario internazionale e le finalità strategiche degli attori stranieri coinvolti nell’affaire siriano. La crisi siriana è stata poi inserita nella vasta cornice delle rivolte arabe, cercando di evidenziare una linea di continuità nell’azione di attori esterni alle stesse, a partire dall’egemone USA. Si è posto l’accento sugli effetti di destrutturazione di processi di autonoma integrazione mediterranea cui simili fenomeni di destabilizzazione hanno condotto, grazie anche all’ingerenza della potenza globale USA – seguita dagli altri paesi del blocco occidentale – e di quella di attori regionali quali Arabia Saudita e Qatar. In conclusione, si è trattata la questione dell’“intervento umanitario” e di plausibilità, difficoltà ed incognite legate ad un simile scenario bellico.

L’incontro è stato seguito da un pubblico di circa quaranta persone, il quale ha animato un interessante dibattito in cui, fra i vari temi toccati, si è approfondito con il relatore il ruolo nella crisi siriana di attori quali Turchia e Israele, la reazione di Russia e Cina nell’intero panorama delle rivolte arabe ed anche la presenza italiana nell’attuale contesto mediterraneo. A moderare l’incontro Michele Antonelli dell’Associazione delle Colline; Antonelli, con la sua esperienza pluriennale di lavoro all’estero per conto delle Nazioni Unite, ha potuto contribuire al dibattito segnalando in particolare le analogie nella manipolazione mediatica che caratterizza la descrizione di scenari di crisi al centro di forti interessi internazionali.

Di seguito il testo della relazione pronunciata da Giacomo Guarini.

 
Giacomo Guarini illustra al pubblico la sua analisi della crisi siriana
 

In quest’incontro dedicato alla crisi siriana faremo in primo luogo alcune considerazioni sparse sulla rappresentazione che i media hanno fatto degli eventi, per poi provare ad evidenziare quei fattori di ordine strategico che giocano un ruolo fondamentale nella definizione di questa crisi, anche in relazione ai processi di destabilizzazione che hanno toccato in diversa misura l’area mediterraneo-vicinorientale.

I media occidentali e la crisi siriana

Volendo semplicisticamente ripercorrere la rappresentazione mediatica della crisi, possiamo dire che la stampa occidentale per mesi ha letto le vicende siriane come una brutale ed unilaterale repressione governativa a danno di pacifici manifestanti che chiedevano democrazia e riforme. Con il proseguire della crisi, ha fatto capolino sui media, inizialmente in maniera timida, poi sempre più evidente, l’esistenza di un’opposizione armata. La stessa era dipinta in principio quasi esclusivamente come formata da eroici disertori dell’esercito regolare divenuti insofferenti verso le violenze perpetrate dallo stesso e costituitisi in una forza denominatasi Esercito Siriano Libero. Adesso si noterà che non è più così strano apprendere dai media, pur se in maniera contenuta ed ambigua, della presenza di forze anti-governative amorfe, generiche bande armate non immuni dal compimento di crimini, e del sostegno ai ribelli da parte di potenze straniere nonché da parte di formazioni militanti dal sapore jihadista, quasi sempre ricondotte frettolosamente alla denominazione di al-Qaeda. In tutto ciò, tuttavia, l’attenzione è sempre primariamente riposta ad arbitrarie violenze governative, vere o presunte.

Cosa possiamo dire di una simile lettura dei fatti? Sicuramente in principio (siamo ai primi mesi del 2011), accanto a disordini ‘ambigui’, abbiamo assistito alla presenza di una società civile desiderosa di riforme nel paese e molti manifestanti, pur non chiedendo l’immediata caduta dell’establishment, pretendevano riforme incisive. Vi è da dire che la risposta iniziale del governo è stata caratterizzata sì dall’uso della forza (sulla cui arbitrarietà, soprattutto in alcuni precisi contesti non v’è da far mistero), ma questo è stato affiancato da una serie di riforme istituzionali e civili di non indifferente portata: dalla liberalizzazione dell’accesso ai social network a modifiche costituzionali tese all’affermazione di un’effettiva partecipazione politica pluralista, al riconoscimento della cittadinanza alla minoranza curda e alla cessazione dello stato di emergenza, per citarne alcune. E tuttavia scarso peso sembra essersi dato a simili spazi di apertura; anzi, nel momento in cui diverse delle istanze dei manifestanti venivano riconosciute, la “posta in gioco” veniva alzata da questi ultimi (o almeno dalla loro voce riportata nei media) con la richiesta di immediato regime change e di rinuncia del presidente Assad alla sua carica.

I disordini cominciavano a crescere e a ricevere ulteriore spazio mediatico e, mentre si parlava sui media di repressione unilaterale, emergevano versioni dei fatti quasi opposte da parte del governo siriano. La versione ufficiale di Damasco è stata sin da allora quella della denuncia dell’azione di bande armate di terroristi in azione nel paese per destabilizzare lo stesso, finanziate da potenze straniere in soldi, armi, supporto logistico, etc. Una simile posizione poteva considerarsi una trovata propagandistica, e sicuramente presentava una visione manichea, tipica delle verità di Stato. Tuttavia una serie di elementi tendevano anche in principio a riconoscerle una certa fondatezza, che metteva in luce il problema di elementi antigovernativi spregiudicati ed in armi in azione nel paese. Per quanto si potesse tacciare di propaganda baathista l’idea di simile “complotto”, ad un certo punto, accanto ai video e testimonianze prodotte dai ribelli, sulla cui autenticità si è spesso potuto dubitare, si è avuto una mole non indifferente di materiale che mostra soldati feriti o uccisi, testimonianze di civili che accusavano di crimini bande di ribelli antigovernativi etc. Questa mole di dati si è infine insinuata almeno in parte nel panorama informativo e direi che – anche nel nostro paese – certa stampa di matrice cattolica può sicuramente aver contribuito in tal senso. E i motivi sono evidenti; i cattolici ed in generale i cristiani di Siria in larga parte temono che la pace sociale possa venir meno con l’avvento dei disordini e di ribelli antigovernativi così marcatamente caratterizzati in senso jihadista. Hanno infine infranto il muro del silenzio anche notizie relative al supporto in armi, denaro e logistica da parte di realtà straniere, fra le quali gli USA, Stati europei, Qatar, Arabia Saudita, Israele, a dimostrare che questi soggetti non si sono limitati a forme di pressione politico-diplomatica.

E possiamo inoltre parlare di quei casi di gravi crimini, attribuiti con non poca leggerezza alla responsabilità governativa, quali il massacro di Houla e di Deraya, ma sulle quali diversi elementi dovrebbero portare a maturare quantomeno un forte beneficio di dubbio, senza contare fra l’altro la testimonianza di autorevoli testate e giornalisti occidentali che tenderebbero a riconoscere in tali crimini la responsabilità di milizie antigovernative.
D’altronde, anche nei casi di gravi attentati terroristici, con esplosioni che hanno ucciso civili, militari e funzionari governativi, o che hanno danneggiato seriamente edifici e strutture di vario tipo, non si è avuto parimenti grossa esitazione nel nostro circuito politico-mediatico a dichiarare la responsabilità di Assad e del suo governo, in grossi attentati terroristici interpretati come false flag finalizzati a spostare la simpatia della popolazione sul governo invece che sui ribelli. Simili asserzioni, oltre che assolutamente indimostrate, risultano a mio parere prive di solide basi razionali, dal momento che ipotetici ‘autoattentati’ architettati dal governo di Assad non portano ad alcun vantaggio sul piano internazionale (abbiamo visto anzi come nei riguardi del governo vi sia sempre una presunzione di colpevolezza), ma inoltre ritengo che non possano portare nemmeno a benefici sul piano interno, tutt’altro. Credo piuttosto che interesse primario del governo sia quello di mostrare al popolo ed alla comunità internazionale di essere in grado di garantire stabilità e controllo del territorio, mentre una situazione di destabilizzazione di lungo termine – anche mediante escalation di attentati terroristici – alienerebbe piuttosto che aumentare il sostegno del popolo verso il governo. Tuttavia su simili argomenti molto altro vi sarebbe da dire; in ogni caso l’interpretazione quasi esclusivamente a senso unico che di simili crimini viene compiuta dalla nostra stampa, fa capire il verso e gli interessi entro cui questa si muove.

Da ultimo sulla questione dei media, possiamo pensare alle fonti di cui la stampa si è servita per diffondere notizie, spesso provenienti a senso unico da siriani antigovernativi oltretutto residenti all’estero, che dichiaravano di attingere da fonti locali, ma le cui asserzioni si sono spesso potute dubitare o smentire fermamente. Aggiungiamo in estrema conclusione che spesso gli stessi rapporti delle Nazioni Unite hanno peccato non poco in ambiguità, ed hanno accusato il governo (anche – ad esempio – riguardo ai crimini di massa di Houla e Deraya sopra ricordati) con non poche contraddizioni oppure attingendo esclusivamente a fonti di una sola parte, quella ribelle, anche laddove questa non poteva portare prove che non fossero testimonianze, in quanto tali manipolabili, e senza che si desse peso alle numerose testimonianze esistenti in senso contrario.

Una simile panoramica sulla rappresentazione mediatica non può che esser stata incompleta e disorganica, ma può essere utile nella misura in cui proviamo ad analizzare i fattori strategici e gli interessi fondamentali sottesi alla crisi siriana.

Siria: un rapido sguardo al suo interno

Partiamo dunque da cenni spurii sull’assetto politico-istituzionale e civile del paese, per poi collocare la Siria nello scenario internazionale.

Senza dilungarci in narrazioni di carattere storico, possiamo dire che la Siria è guidata dalla medesima forza politica da decenni ormai. E’ infatti nel 1970 che Hafez al Assad, padre di Bashar, prende il potere con un colpo di stato. Il suo ruolo politico cesserà con la morte, nel 2000, successivamente alla quale la presidenza verrà assunto dal figlio Bashar. Il partito di riferimento degli Assad è il Baath, del quale possiamo eseplificativamente indicare certi fondamenti ideologici per capire anche alcune fondamentali direttive di tipo politico, economico e sociale che hanno caratterizzato la vita del paese in questi decenni. Il Baath si presenta come una forza politica tesa a valorizzare tanto l’elemento nazionale quanto l’identità araba ed improntata su un modello di sviluppo economico-sociale di forte impronta socialista (ancora oggi, nonostante diverse riforme di stampo liberale perseguite negli ultimi anni, nella vita economica l’elemento pubblico è predominante) e da una impostazione ‘laica’ dell’assetto civile e politico istituzionale. E’ questo un elemento importante per capire certi fondamentali elementi di dialettica politica che hanno un ruolo molto importante anche nell’attuale scenario di crisi.

In effetti, l’establishment politico siriano non è caratterizzato da esclusivismo etnico-confessionale: il presidente deve essere musulmano ma lo Stato non ha caratterizzazione religiosa e in ogni caso anche diverse minoranze, pur con problemi mai sopiti (vedi la questione curda), hanno trovato inserimento e un assetto basato sulla stabilità e convivenza civile in un regime che, almeno in linea di principio, avrebbe cercato di superare le divisioni etnico-religiose. Elemento da non sottovalutare è inoltre l’appartenenza confessionale del presidente, legato alla minoritaria componente alawita del paese, così come buona parte dell’élite politico-militare che è andata affermandosi. Simile elemento costituisce infatti un fattore di conflittualità non indifferente, che nella crisi attuale fa presa in particolare su oppositori governativi afferenti alla galassia del sunnismo radicale, presso i quali l’alawismo è tacciato di eresia ed il governo in carica risulterebbe illegittimo.

Il coinvolgimento internazionale sulla Siria

Non possiamo dubitare che quella siriana sia una crisi dai risvolti internazionali, anzitutto per la grande mobilitazione politico-diplomatica che ha coinvolto numerosi paesi al riguardo (anche in importanti sedi internazionali, a partire dalle Nazioni Unite). Volendo dare collocazione alla Siria nello scenario internazionale possiamo dire che il paese ha un lungo e consolidato legame con la potenza iraniana, che costituisce elemento fondamentale di raccordo e sostegno anche alla formazione politica sciita libanese di Hezbollah, nonché alla lotta di liberazione palestinese. Il paese, nonostante reciproci avvicinamenti con il blocco occidentale nel periodo ‘pre-rivolte’, è dunque strategicamente in opposizione ad esso sul piano geopolitico (nemico di Israele, alleato dell’Iran, vicino a potenze non legate al blocco euro-atlantico quali la Russia), nonché nel modello di sviluppo socio-economico, caratterizzato da una struttura ancora sostanzialmente socialista.

Chi sono dunque oggi i principali attori dello scacchiere internazionale ad animare la contesa sulla crisi siriana? Soggetto primario nell’opposizione al regime di Assad sono gli USA, la potenza alla guida del blocco occidentale, con i paesi afferenti a quest’ultimo, che si dimostrano in sintonia fondamentale con l’egemone, pur manifestando differenti ‘gradi’ di ostilità nei confronti dell’establishment siriano. Molto vi sarebbe da dire su due attori particolari nella crisi siriana: Turchia ed Israele. Ci limitiamo a rilevare come il primo di questi due paesi sia passato repentinamente da una fase di positiva intesa con la Siria, a seguito della ricucitura di vulnera nelle relazioni bilaterali, fino invece a giungere ad improvvisa ed aperta ostilità poco dopo l’inizio della crisi. Tanti gli sforzi degli analisti nella lettura del comportamento turco, che con le ‘primavere’ arabe ha ripensato la propria strategia assecondandola in buona parte agli interessi occidentali.

Su Israele invece ci limitiamo per ora a rilevare come il paese abbia mantenuto un ruolo estremamente prudente e defilato, soprattutto durante i primi mesi di rivolta, e come tutto sommato un simile atteggiamento continui a caratterizzare l’establishment israeliano, nonostante abbia in maniera inequivoca preso posizione contro l’attuale governo siriano. Anche su Israele, e sul suo rapportarsi alla crisi siriana come all’intero scenario delle rivolte arabe, vi sarebbe molto da dire, ma basta ora constatare che l’establishment israeliano si trova in una posizione nella quale ogni suo aperto sostegno ad una delle parti in causa subirebbe un effetto opposto a quello desiderato. Sostenere i ribelli, nella stessa esplicita e rumorosa maniera con la quale si muove l’Occidente, significherebbe regalare al governo di Assad importanti motivi di legittimazione politica, tanto all’interno del paese, quanto nell’intera compagine araba e musulmana.

Continuando nella presentazione delle parti coinvolte nella crisi, in linea di ferma opposizione al governo, non possiamo affatto soprassedere sul ruolo fondamentale assunto dalle cosiddette petromonarchie – Arabia Saudita e Qatar in particolare – nella promozione delle cosiddette “primavere”, tanto nello scenario siriano, quanto in quello dell’intera area mediterranea. Indiscusso e massiccio è stato infatti al riguardo il loro attivismo finanziario, mediatico, militare, politico, diplomatico, di intelligence, etc. Facendo leva su tale molteplicità di risorse, questi attori sono intervenuti in diversa misura ed intensità negli scenari di rivolta. Sulla questione siriana, numerosi esempi potremmo fare di elementi dai quali emergerebbe il sostegno materiale agli oppositori armati (in armi, denaro, combattenti, etc.), affiancato all’attività politico-diplomatica di aperta ostilità verso il regime di Assad. La fortissima connotazione confessionale di questi Stati, come roccaforti del sunnismo wahabita, fa leva anche sul fattore religioso ed oggi non è mistero il loro sostegno ai militanti islamisti in terra siriana, così come avvenuto con simili formazioni politico-militanti in diverse realtà del globo.

E’ invece dal versante opposto che emergono potenze quali l’Iran, con il quale – abbiamo ricordato – c’è una solida alleanza, ma anche la Russia, con la quale il legame strategico è forte dai tempi dell’URSS, e viene d’altronde spesso ricordata dai commentatori l’importanza della Siria per Mosca, nella misura in cui costituisce al momento l’unica salda garanzia di diretto accesso al Mediterraneo dal porto della città di Tartus. Anche la Cina, fra i colossi emergenti, rappresenta assieme alla Russia un elemento fondamentale di contrapposizione alle istanze dei paesi guidati dal blocco occidentale; Russia e Cina hanno finora neutralizzato in sede di Consiglio di Sicurezza le risoluzioni presentate contro l’establishment siriano, giudicandole non equilibrate.

Sicuramente è una semplificazione forzata, ma forse utile, il rilevare come in buona parte le posizioni sulla crisi siriana, anche in sede ONU, possano considerarsi riflesso di opposte visioni del mondo e collocazione geopolitica. Laddove paesi del blocco occidentale – o paesi ad esso legati – infatti tendono ad avere sulla questione posizioni di ostilità verso il governo, paesi non afferenti alla realtà occidentale e da essa più o meno slegati (andando da relazioni di superficiale freddezza fino all’aperta ostilità con USA e alleati) tendono ad avere posizioni molto meno aggressive e più vicine al principio di difesa della sovranità della Siria e di risoluzione della crisi per via politica e non militare.

Crisi in Siria e nel Mediterraneo: gli interessi dietro la destabilizzazione

E’ evidente dunque come la Siria rifletta un campo di contesa tanto per attori globali che per potenze regionali. Ci chiediamo adesso se la contesa sulla Siria possa, sotto un profilo strategico, coerentemente inserirsi in un disegno che coinvolge l’intero processo di profonda destabilizzazione che ha attraversato la regione e che ha preso la denominazione idealistica di “Primavere”. Anzitutto emerge in questo panorama un’oggettiva convergenza fra le ‘petro-monarchie’ alleate degli USA, delle quali abbiamo ricordato il forte attivismo in questo contesto, ed il blocco occidentale. Tale convergenza trova importante linfa nella comune contrapposizione alla potenza iraniana, elemento di contrasto tanto per gli USA, quanto per i paesi del Golfo nella competizione per il controllo e l’influenza nell’area.

Diventa a questo punto importante far cenno al coinvolgimento degli USA nei processi in corso nell’intera regione. Potremmo a lungo soffermarci sui fattori endogeni che hanno creato terreno estremamente fertile per l’esplosione dei fenomeni di rivolta, tuttavia è possibile – com’è stato autorevolmente fatto – far emergere numerosi segnali di un forte coinvolgimento dello stesso attore egemone nel sostegno alle rivolte dell’area sunnita. Simile sostegno si è concretizzato in diversi contesti sulla falsariga delle cosiddette “rivoluzioni colorate” (e quindi con sostegno logistico, finanziario, mediatico, etc. a gruppi di protesta civile) ma anche con il diretto intervento militare (vedi Libia), e ciò che sicuramente può colpire del sostegno dato a questa massiccia forma di destabilizzazione è che con la stessa non si sono colpiti solamente regimi ostili a Washington (Libia e – come vedremo – Siria) ma anche establishments tutto sommato in buoni rapporti con Washington (Tunisia, Egitto) e che costituivano sicuramente una salda garanzia in un’area così esplosiva.

Perché dunque muovere una strategia simile, andando a colpire anche dei punti di riferimento stabili in un’area delicata? Certamente conta il fatto che gli USA abbiano voluto scaricare dei leader politici ormai molto screditati nel proprio paese, eppure l’ingerenza nel cambio di assetti sembra essere in un certo senso a monte. Difficile dare risposta univoca dunque alla domanda di cui sopra, ma sicuramente possono rilevarsi degli effetti gravi ed immediati che la destabilizzazione ha prodotto nell’area in favore di Washington, relativi alla destrutturazione o comunque grave compromissione di processi di integrazione mediterranea e vicinorientale che andavano sviluppandosi prescindendo dalla tutela del grande egemone, ed anzi spesso finanche trovando sponda nelle nuove potenze emergenti (Cina e Russia in primis). Una situazione di grave preoccupazione per Washington. Si pensi, a titolo di mero esempio, ai rapporti che andava costruendo l’Italia con le altre sponde del Mediterraneo, a partire da quella libica; al corso autonomo che stava intraprendendo la Turchia; ai segnali di positiva interazione strategica fra le stesse Roma e Ankara di concerto con Mosca su di una fondamentale questione strategica quale quella del gasdotto South Stream; sull’avvicinamento reciproco fra importanti realtà dell’area quali Turchia, Iraq, Siria e Iran. Senza dimenticare, in quest’ultimo caso, idee come quella del cosiddetto “gasdotto islamico”, che prevedeva un coinvolgimento degli ultimi tre paesi in un importante progetto potenzialmente in grado di affermarsi nel campo delle forniture energetiche all’Europa.

Simili importanti progetti di medio periodo, indicati a titolo esemplificativo, erano potenzialmente in grado di aprire le porte a progetti di lungo periodo ancor più ambiziosi; essi sono stati minati in maniera più o meno profonda – ma in ogni caso netta – dagli sconvolgimenti in corso; senza contare anche certi vantaggi di breve periodo, quali l’aver reso le frontiere tunisine ed egiziane molto più porose e funzionali alle operazioni militari contro la Libia di Gheddafi ed aver favorito un humus ostile contro l’establishment siriano. Consideriamo poi quella che, pur se in sordina rispetto ai grandi media, va profilandosi come un fondamentale oggetto di contesa, ovvero il rilevamento recente di giacimenti gasiferi e petroliferi molto ingenti nel Mediterraneo, in un’area che coinvolge Grecia, Turchia, Cipro, Israele, Libano e Siria. Si è infine menzionata la Russia, ma lo stesso vale per la Cina, la cui penetrazione sempre più forte nel Mediterraneo rende questo un terreno di contesa ed un luogo ove diventa per gli USA importante sbarrarne la penetrazione, come già a livello globale vediamo fare con il comando militare Africom nel continente africano e con il rafforzamento della presenza nell’area pacifica, la quale oramai risulta apertamente oggetto di un forte slittamento strategico degli USA in questa nuova fase strategica.

Concludendo in merito al coinvolgimento USA nella regione delle ‘primavere’, non bisogna dimenticare che l’area mediterranea è contigua a quella centroasiatica ed insieme costituiscono le principali “cerniere” dell’Eurasia, la cui destabilizzazione darebbe linfa vitale alla penetrazione statunitense nella massa continentale. L’area centroasiatica, quella dei “Balcani eurasiatici”, secondo la definizione del noto politologo Brzezinski, si presenta come un’area molto ricca di risorse, potenzialmente esplosiva sul piano delle conflittualità etnico-religiose, nelle quali un peso importante assume la presenza di gruppi jihadisti, spesso di matrice wahhabita. Diversi analisti si sono interrogati sul fatto che i disordini ndell’area mediterranea possano infine ‘contaminare’ quella centroasiatica, con la possibilità che il problema della instabilità finisca così per irrompere entro i confini interni della Russia in primis ed anche in Cina.

Prospettive

In conclusione, torniamo nuovamente alla Siria, dove per mesi ci si è interrogati sulla sopravvivenza del regime di Assad e sulla possibilità che la crisi possa trovare sbocco in un intervento armato esterno. Cosa dire al riguardo?

Dopo lo spettacolare attentato terroristico del 18 Luglio, che ha colpito alti esponenti governativi, la stampa ha molto esaltato l’‘avanzata’ dei ribelli prima a Damasco e poi ad Aleppo. In realtà è apparso evidente infine come il governo abbia dimostrato forte resilienza e sia ancora ben in grado di guidare il paese e di impedire ai ribelli di prendere il controllo prolungato di aree della Siria che non siano zone di confine, o comunque strategicamente non rilevanti. Ciò non toglie che la lotta armata di opposizione causi evidenti danni alla vita civile, sociale, economica del paese; possiamo dunque affermare che, allo stato attuale delle cose, i ribelli possono continuare ad essere elemento di destabilizzazione solo con il massiccio appoggio esterno, e tuttavia questa destabilizzazione può avere al più funzione di logoramento e non di capovolgimento degli assetti di potere, o almeno non nel breve periodo. E’ chiaro invece che simile logoramento, unito a pressioni internazionali, potrebbe al più avere effetti decisivi in Per approfondiretempi lunghi. Ed invece l’unica possibilità di caduta del regime nel breve periodo parrebbe poter aver luogo mediante intervento militare esterno, nelle varie forme concepite da politici ed opinionisti in questi mesi, tenendo però ben conto anche da questo punto di vista che la Siria non è affatto la Libia per una serie di ragioni, dalle capacità militari agli appoggi internazionali, senza dimenticare affatto i gravi effetti destabilizzatori che un intervento militare potrebbe far dirompere prepotentemente nell’intera regione ed anche oltre.

Ma è concepibile dunque un intervento diretto armato nel breve periodo? Come è detto da più parti, nei prossimi mesi pesa sicuramente la campagna elettorale statunitense nello scongiurare eventuali – quanto mai imprevedibili – avventure belliche. Possiamo fare un azzardo nel dire che il presidente in carica negli USA, la cui rielezione appare abbastanza probabile, faccia riferimento ad un pensiero strategico teso a mantenere un approccio ‘soft’ nell’area e a valorizzare invece altre regioni del globo, quale la già ricordata area del Pacifico. Tuttavia ogni valutazione deve essere presa con profondo beneficio di dubbio, essendo da tempo ricompreso nelle mire strategiche di Tel Aviv e Washington un cambio di assetti politici in Siria ed Iran ed essendovi forti pressioni in seno all’establishment USA affinché un simile cambio venga promosso in tempi brevi. E’ probabile che in tempi brevi si avrà l’accentuarsi di una dialettica interna all’élite USA – e già molto intensa – fra una visione interventista nel “Grande Medio Oriente”, anche sul piano militare, ed una strategia che invece cerca nell’area un approccio di ingerenza indiretta, concentrando la proiezione strategica del paese su altre aree del globo, a partire da quella del Pacifico, come ricordato.

Per scaricare la locandina (in formato PDF) cliccare qui.


The Place and Role of Syria in Arab-Israeli Conflict 1946-2000

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Due to its favorable geographical position Syria is one of the most significant political and cultural centers in the Arab as well as Islamic world. It is here that a variety of political ideas and movements were given birth to
and brought to life. They have greatly influenced the process of political, economic and cultural development in the Arab world. Being part and parcel of Arab “umma” (motherland), Syria has, undoubtedly been playing a key strategic role in the Arab-Israeli conflict as well as in establishing peace in the Middle East. For more than half a century,
lying in the epicenter of the unyielding struggle in the region, Syria has actively been participating in all the phases of the most long-lasting international conflict. It is quite natural that one of the most prominent Armenian scholars, Doctor of Historical Sciences Rouben Karapetian had devoted a special monographic study. Dr. Karapetian had put over his shoulders heavy burden of scientifically presenting for the first time the position of Syria towards the
Arab-Israeli conflict which covers the long period from 1946, when the independent state of Syria appeared on the world map, up to 2000 when the reign of Syria’s President Hafez Assad was over.

Sommario:

INTRODUCTION

CHAPTER 1 – SYRIA AND THE ORIGINS OF ARAB-ISRAELI CONFLICT
Syrian Nationalism and Zionist Ideology in the Mandate Period 1920-1949
Ottomanism Period
Period of Arabism
French Mandate for Syria
Creation of the State of Israel and the Newly-Independent Syria towards Palestine Problem

CHAPTER 2 – SYRIA IN THE VORTEX OF ARAB-ISRAELI WARS (1948-1967)
Syria’s Participation in the First Arab-Israeli War and Its Consequences
Beginning of the Cold War in the Region
Unification of Syria and Egypt, Formation of the United Arab Republic (1958-1961)
Struggle against Israel and Zionism in the New Ba’ath Administration’s Ideology
The “Six-Day” Arab-Israeli War and Its Consequences for Syria

CHAPTER 3 – SYRIA’S MIDDLE EASTERN POLICY ON THE WARP OF USA – USSR GLOBAL CONFRONTATION (1967-1978)
Damascus and the Palestine Liberation Organization
Jordan Crisis of 1970 and Power Shift in Syria
Hafez al-Assad’s Standpoint Towards Arab-Israeli Conflict
Syria’s Participation in the “October” War in 1973
Damascus’ Place in H. Kissinger’s “Step-by-Step” Policy
Civil War in Lebanon
Syria and the Signing of Camp David Agreement

CHAPTER 4 – SYRIA’S REGIONAL POLICY AFTER CAMP DAVID
Israel’s Invasion of Lebanon in 1982
Taif Agreement and the Establishment of Pax Syriana in Lebanon
Problems of Terrorism, Drug Trade and Human Rights in US-Syrian Relations

CHAPTER 5 – SYRIA AN ACTIVE PARTICIPANT IN THE PEACE PROCESS (1991-2000)
Syria’s Participation in the Gulf War
Madrid Peace Conference – Beginning of an Unfinished Way
Syria and Peacemaking Process
The Last Attempt to Establish Peace between Syria and Israel
The End of Hafez al-Assad’s Era: Syria Facing New Internal and External Challenges

AFTERWORD

BIBLIOGRAPHY
Archives – Official documents – Press releases – Enciclopedias
Monographs – Articles
Mass media
Used Internet Sources

 

The Place and Role of Syria in Arab-Israeli Conflict 1946-2000

Author: Rouben Karapetian
Publishers: IsAG/Fuoco, Rome 2012
Features: € 20,00, 267 pp.

Il Vertice NAM a Tehran: Daniele Scalea intervistato dall’IRIB

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Daniele Scalea, segretario scientifico dell’IsAG e condirettore di “Geopolitica”, è stato intervistato alcuni giorni fa da Radio Italia dell’IRIB a proposito delle reazioni occidentali al Vertice del Movimento dei Non Allineati svoltosi a Tehran dal 26 al 31 agosto scorsi. La fonte originale è raggiungibile cliccando qui. Di seguito l’audio e la trascrizione dell’intervista.

 

 
Perché la stampa italiana è stata così silenziosa riguardo al vertice del Movimento dei paesi non allineati (NAM) svoltosi a Tehran?

A parte la tendenza dei media italiani a non occuparsi molto della politica estera, sicuramente c’è stato un certo fastidio da parte degli USA e dei loro alleati rispetto a quello ch’è stato un successo diplomatico dell’Iran. Il tentativo d’isolare il paese iraniano va avanti ormai da diversi anni, ed ha senza dubbio avuto dei grossi risultati, ma non sufficienti se così tanti capi e alti funzionari di Stato si sono recati a Tehran per questo vertice, malgrado le pressioni fatte dagli USA su alcuni governanti (soprattutto il presidente egiziano Morsi). V’è stata anche una sorta di “strategia della tensione” alimentata da Israele. Nelle settimane precedenti il vertice sono state fatte filtrare numerose voci, notizie e dichiarazioni inerenti un possibile attacco israeliano all’Iran, a mio avviso prive di fondamento ma miranti proprio a dissuadere gli ospiti stranieri dal recarsi al vertice.

Il segretario dell’ONU Ban Ki Moon ha condannato le minacce d’attacco d’alcuni contro paesi contro l’Iran. Qual è stata la reazione dei paesi occidentali?

Anche la presenza di Ban Ki Moon a Tehran non ha ovviamente fatto piacere a certi paesi, benché abbia cercato d’assumere una posizione equilibrata, “bacchettando” tanto Israele quanto l’Iran. Ciò s’addice a quel che dovrebbe essere il suo ruolo di mediatore super partes che fa rispettare il diritto internazionale. L’ONU non è sempre stato tale e lo stesso Ban Ki Moon in passato ha peccato di scarsa neutralità.

Italia e Russia. Articolo di T. Graziani e D. Scalea su RIA Novosti e rivista del MAE russo

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La versione inglese dell’articolo Ripensare l’interesse nazionale e la strategia dell’Italia nel mondo che cambia, pubblicato dal presidente Tiberio Graziani e dal segretario scientifico Daniele Scalea nel sito della rivista dell’IsAG Geopolitica, ha ricevuto ampia attenzione all’estero. In particolare è stato ripreso da varie testate russe, e ciò in ragione, presumibilmente, del rilievo in cui si pone nell’articolo il rapporto tra l’Italia e la Russia.

Col titolo Rethinking Italian National Interest and Strategy in a Changing World è stato pubblicato dalla Fondazione di Cultura Strategica di Mosca [vedi], dal World Public Forum “Dialogue of Civilizations” [vedi], da International Affairs (rivista del Ministero degli Esteri della Federazione Russa) [vedi] e infine dall’agenzia di stampa ufficiale della Federazione Russia RIA Novosti [vedi].

L’articolo è inoltre apparso nel canadese Global Research [vedi] e, in lingua tedesca, nell’austriaco Christlich Freiheitliche Plattform [vedi].

Il significato dell’Unione Eurasiatica. Tiberio Graziani intervistato da “La Voce della Russia”

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Alla vigilia della conferenza “L’Unione Eurasiatica: sfida od opportunità per l’Europa?“, svoltasi ieri a Roma, il presidente dell’IsAG e direttore di “Geopolitica” Tiberio Graziani è stato intervistato da “La Voce della Russia” (media partner dell’evento) a proposito dell’incontro romano e del significato dell’Unione Eurasiatica.
La versione audio può essere ascoltata cliccando qui. Di seguito la trascrizione dell’intervista.

 
Come sarà organizzato il lavoro del Forum?

Si tratta del primo evento sulla Commissione Economica Eurasiatica che si svolge in Europa. Abbiamo scelto Roma per rendere noto al sistema imprenditoriale, politico e massmediatico italiani questa nuova integrazione economica, inaugurata nel 2012 ma con alle spalle un retroterra d’almeno una decina di anni.
L’evento vedrà la partecipazione di un esponente della Commissione Economica Eurasiatica, cui seguiranno gl’interventi dei diplomatici dei tre paesi coinvolti (Bielorussia, Kazakistan e Russia). Nel pomeriggio un secondo panel, più tecnico, darà la parola ad esperti dell’economia e a rappresentanti dei nostri Ministeri degli Esteri e dello Sviluppo Economico.

Secondo lei l’apparizione dell’Unione Eurasiatica è un atto tempestivo? Quali vantaggi offre il progetto rispetto ad altre strutture in funzione?

Si tratta di un aggregato economico che nasce in una fase molto particolare dal punto di vista geopolitico, quella di transizione uni-multipolare. E’ normale che oggi e nel futuro nascano nuove aggregazioni politiche, economiche o strategiche. In futuro forse non si parlerà più di scambi tra le singole nazioni, bensì tra gli aggregati di nazioni, quali l’Unione Europea o l’Unione Eurasiatica.

Come Lei personalmente vede il futuro del progetto? È utile allargarne i confini?

L’Unione Eurasiatica rappresenta anche un passo verso l’integrazione dell’intera massa eurasiatica in termini di scambi di beni e servizi. Le singole nazioni all’interno dell’Unione Eurasiatica dovranno, per facilitare gli scambi, trovare standard comuni, che dovrebbero essere il più possibile simili a quelli dell’Unione Europea. Ciò porterebbe ad una crescente integrazione economica dei due aggregati.

“L’Unione Eurasiatica: sfida od opportunità per l’Europa?”. Conferenza alla Camera dei Deputati

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Mercoledì 19 settembre si è tenuta la conferenza L’UNIONE EURASIATICA.Sfida od opportunità per l’Europa?. L’evento ha avuto luogo presso la Sala delle Colonne di Palazzo Marini, Camera dei Deputati, in Via Poli 19 a Roma.

A partire dall’inizio di quest’anno il territorio di Bielorussia, Kazakistan e Russia è stato ufficialmente dichiarato “spazio economico comune”, con libera circolazione di cittadini, merci, servizi e capitali. La Commissione Doganale, fondata nel 2007, ha contestualmente mutato nome in Commissione Economica Eurasiatica e si occupa di sovrintendere all’integrazione di Bielorussia, Kazakistan e Russia. L’obiettivo, concordato dai tre paesi, è quello di giungere alla creazione di un’Unione Eurasiatica modellata sull’omologo europeo.
L’integrazione dei tre paesi eurasiatici ha importanti conseguenze sul piano geopolitico e geoeconomico e, dal punto di vista delle imprese italiane, apre inedite opportunità d’investimento e commercio in Bielorussia, Kazakistan e Russia. Per tali ragioni l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), in collaborazione con l’Associazione Conoscere Eurasia e col Consolato Onorario Russo di Verona, ha organizzato questa conferenza che gode del patrocinio del Ministero degli Affari Esteri, del Ministero dello Sviluppo Economico e di Roma Capitale.

Sono intervenuti l’ambasciatore bielorusso Evgenij A. Šestakov, l’ambasciatore kazako Andrian K. Yelemessov, il consigliere Aleksandr Zezjulin dell’Ambasciata russa, Mauro Conciatori del Ministero degli Affari Esteri, Armen Oganesjan direttore della rivista del Ministero degli Esteri russo, Daniele Scalea segretario scientifico dell’IsAG, Piercarlo Valtorta presidente dell’Istituto Studi Ricerche Informazioni Difesa (ISTRID). Hanno portato i loro saluti Tiberio Graziani presidente dell’IsAG, on. Marcello De Angelis in rappresentanza della Camera dei Deputati e Serena Forni in rappresentanza di Roma Capitale.

Media partner della conferenza sono stati “Geopolitica“, “Meždunarodnaja Žizn” (rivista ufficiale del Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa), “La Nostra Gazzetta“, “Russia Oggi“, “Il Sole 24 Ore” e “La Voce della Russia“, che si sono occupati di divulgare i contenuti dell’evento, prima conferenza internazionale su questo tema a svolgersi in un paese dell’Unione Europea.

Sono disponibili:

• Programma della conferenza [vedi];

• Report preparatorio del Programma “Eurasia” dell’IsAG [vedi];

• Cronaca della conferenza, di Roberto Ricci, pubblicata nel sito di Geopolitica il 22 settembre 2012 [vedi];

• La conferenza nei media: “La Voce della Russia”, “Il Sole 24 Ore”, “Il Secolo d’Italia”, “Libero” [vedi];

Dall’Unione Eurasiatica allo spazio economico comune tra Lisbona e Vladivostok, testo dell’intervento di Antonio Fallico [vedi];

L’Unione Eurasiatica: una nuova realtà in Oriente. E’ una sfida o una possibilità per l’Europa?, testo dell’intervento di Evgenij A. Šestakov [vedi];

L’Unione Eurasiatica come partner e ponte per l’Europa, testo dell’intervento di Andrian Yelemessov [vedi];

Le integrazioni regionali, sfida comune per Europa e Eurasia, testo dell’intervento di Aleksandr Zezjulin [vedi];

L’Unione Eurasiatica, l’Unione Europea e l’Italia, testo dell’intervento di Mauro Conciatori[vedi];

Le opportunità economiche e commerciali offerte alle imprese italiane dall’Unione Eurasiatica, testo dell’intervento di Paola Brunetti [vedi];

La marginalità geopolitica dell’Unione Europea nel contesto centroasiatico, testo dell’intervento di Daniele Cellamare [vedi].

La conferenza sull’Unione Eurasiatica nei media

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Il successo della conferenza L’Unione Eurasiatica: sfida od opportunità per l’Europa?, tenutasi il 19 settembre 2012 presso la Camera dei Deputati, è testimoniato anche dalla copertura ricevuta dai mezzi d’informazione.

Media partner della conferenza sono stati “Geopolitica“, “Meždunarodnaja Žizn” (rivista ufficiale del Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa), “La Nostra Gazzetta“, “Russia Oggi“, “Il Sole 24 Ore” e “La Voce della Russia“.

“La Voce della Russia” ha intervistato Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di Geopolitica, alla vigilia dell’evento [clicca], opportunamente segnalato anche da “Russia Oggi”, inserito del più letto quotidiano italiano, “La Repubblica” [clicca].

“Il Sole 24 Ore” del 17 settembre ha dedicato un intero articolo all’argomento, intitolato La Russia rilancia l’Unione Eurasiatica. Oltre a citare la conferenza, l’articolo di Chiara Bussi [clicca] integra pure alcune opinioni di Tiberio Graziani:

[...] «L’unificazione, in buona parte già avvenuta, e in parte ancora in atto di parametri sanitari, norme tariffarie e politiche sulla concorrenza – spiega il presidente dell’Isag Tiberio Graziani – permette oggi agli imprenditori italiani di rapportarsi ai tre Paese come a un soggetto progressivamente sempre più unitario per quanto riguarda il commercio internazionale. Molte imprese che già oggi lavorano nella Federazione russa, ad esempio, potranno affacciarsi sul mercato kazako con maggiore facilità. La Ue potrà trovare un nuovo grande mercato di sbocco e i tre Paesi fornitori di energia potranno così accelerare il processo di modernizzazione e di diversificazione delle loro economie». [...] Secondo Graziani «l’Unione può rappresentare un percorso di coinvolgimento progressivo, favorendo ad esempio la graduale transizione di un Paee come la Bielorussia, verso standard economici più prossimi a quelli europei».

Dopo l’evento, il primo a raccontarlo è “Il Secolo d’Italia” del 19 settembre, nell’articolo di Antonio Pannullo Al centro dell’Eurasia nasce una giovane Ue [clicca]. Vi si legge:

[...] Dal convegno è emerso che ovviamente l’integrazione delle tre nazioni euroasiatiche avrà importanti conseguenze sul piano geopolitico e geoeconomico e, dal punto di vista delle imprese italiane, apre inedite opportunità d’investimento e commercio. Per tali ragioni I’Istituto di Alti studi in Geopolitica e Scienze ausiliarie (Isag), in collaborazione con l’associazione Conoscere Eurasia e col consolato onorario russo di Verona, ha organizzato questa conferenza che godeva del patrocinio del ministero degli Esteri, del ministero dello Sviluppo economico e di Roma Capitale.

Un altro articolo dedicato alla conferenza è uscito il 28 settembre su “Libero” a firma Enrico Verga; vi sono citati diversi passaggi dell’evento organizzato dall’IsAG:

[...] come spiegato dall’ambasciatore kazako Yelemessov, sarà «un ponte verso il centro Asia e l’Asia meridionale. Grazie all’Unione vi sarà la rinascita dell’antica via della seta. Lo spazio economico comune, nel futuro, non sarà un rivale ma un partner strategico per l’Unione Europea».
Una versione aggiornata della passata Unione Sovietica? Molto di più, specie dal punto di vista delle prospettive economiche. «La Russia vuol rafforzare la cooperazione regionale. L’avvicinamento dei tre paesi contribuisce alla stabilizzazione globale. L’abbattimento delle barriere doganali tra i nostri Stati rappresenta una crescita che potrà diminuire gli effetti negativi della crisi globale» ha affermato Zezyulin, il rappresentante russo presente alla conferenza.
[...] L’ambasciatore bielorusso Shestakov ha sintetizzato brevemente alcuni vantaggi che la sua nazione, all’interno dell’Unione, può offrire al nostro paese: «Abbiamo forza lavoro a buon mercato. Nel distretto industriale di Brest stiamo attivando uno sportello per le imprese italiane. Gli investitori italiani possono avere accesso a importanti opportunità di crescita grazie alla preesistente infrastruttura di ricerca tecnologica, l’accesso a materie prime esenti da dazi doganali e agevolazioni tariffarie. Dal 2012 gli investimenti italiani sono stati superiori ai 180 milioni di dollari».
[...] Secondo Tiberio Graziani, presidente dell’Isag, «l’Unione può rappresentare un percorso di coinvolgimento progressivo, favorendo la graduale transizione di un Paese come la Bielorussia verso standard economici più prossimi a quelli europei».
[...] «Con il crollo del muro c’è stato un abbattimento delle barriere commerciali grazie alla globalizzazione» spiega il senatore Marcello De Angelis del Pdl, presente alla conferenza. «Un potere economico, quello USA, si è espanso in tutto il mondo. Nel tempo si sono manifestate delle nuove realtà non americane spesso viste, dall’Europa, come competitori, in una guerra commerciali con gli Stati Uniti. Ci sono voluti dieci anni perché quest’ostilità nei confronti di possibili partner commerciali non USA si modificasse in una percezione positiva, da parte delle aziende italiane ed europee, per lo sviluppo di commerci con questi blocchi nazionali e sovranazionali. La ricerca di nuovi partner commerciali ha spinto i movimenti politici a prendere coscienza dei cambiamenti e attivarsi per cogliere le nuove opportunità».

L’intervista di E. Bertolasi a Leonid Kravchuk sui media ucraini

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Il 24 settembre 2012 il sito di Geopolitica, rivista dell’IsAG, ha pubblicato un’intervista esclusiva di Eliseo Bertolasi all’ex presidente ucraino Leonid Kravčuk ([vedi]).

L’intervista è stata ripubblicata in lingua italiana da Ukrains’ka Gazeta ([vedi]) e in lingua ucraina da Pravda Ukrainy ([vedi]).

Ukrains’ka Gazeta è il giornale della comunità ucraina in Italia, con una tiratura mensile di oltre 23.000 copie. Pravda Ukrainy, organo del partito comunista ucraino in epoca sovietica, è oggi un quotidiano indipendente ad ampia diffusione.


Il peso geopolitico della Grecia. Tiberio Graziani intervistato da “Il Sole 24 Ore”

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Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di “Geopolitica”, è stato intervistato da “Il Sole 24 Ore” a proposito della crisi greca. L’intervista è comparsa a p. 8 dell’edizione del 1 ottobre 2012, col titolo “Europeriferia affacciata su aree a rischio”. Una copia dell’articolo può essere letta, tramite la Rassegna Stampa della Camera dei Deputati, cliccando qui. Di seguito la trascrizione.

 
Paese piccolo, e per di più periferico. Culla della civiltà, ora declassata ai margini della zona europea. Ma area strategica dal punto di vista geopolitico, che fa gola anche alla Russia e ai Paesi balcanici. «La carta vincente della Grecia – spiega Tiberio Graziani, direttore dell’Istituto di alti studi di geopolitica – è la posizione geografica che ne fa l’avamposto per l’Oriente e Paese chiave dell’area mediterranea. Considerarlo un Paese periferico è un errore strategico». A giocare nello scacchiere internazionale Atene si è abituata presto, con l’ingresso nella Nato nel 1952, prima, e nel 1981 nella Comunità economica europea insieme – ironia della sorte – a Spagna e Portogallo. Eterna rivale della vicina Turchia, ha finora posto il veto all’ingresso di Ankara in Europea. Ed è stata accontentata.
Nel 2002 la Grecia ha raggiunto il traguardo più ambito: l’ingresso nel club della moneta unica fino ad arrivare a minarne le fondamenta. «Di fronte agli scossoni greci – avverte Graziani – l’unica soluzione è la solidarietà. Anche per questioni di opportunità, perché Atene può accompagnare le imprese, comprese quelle tedesche, nell’espansione verso est e verso l’area mediterranea».

The WEF Report Competitiveness and Perspectives of Kazakh Economy

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No. 1 – September 2012
Author: IsAG – Programma Eurasia
Language: Italiano
Keywords:
 Global competitiveness
 Kazakhstan, economy
 World Economic Forum

 
Download the Report (PDF) / Scarica il Rapporto (PDF)

 
Abstract
Kazakhstan’s economic environment is making significant steps forward, and the country is affirming itself
as one of the most competitive economy in the region. The World Economic Forum’s 2012-2013 Global
Competitiveness report has ranked Kazakhstan 51 in a range of144 countries in the world.
The report, first published in 2005, bases its analysis on a comprehensive definition of competitiveness,
which includes political and human development elements together with micro and macro economic
aspects. Competitiveness is defined as the set of institutions, policies and factors that determine the level
ofproductivity ofa country.
According to this analysis, Kazakhstan moved back up to a position similar to the one it held few years
ago, 51/144, climbing 21 positions from last year when it positioned 72th. While the overall outlook on
world competitiveness seems fragile, Kazakhstan shows to have done most significant improvements
among other countries assessed in the report.
Data show that this positive result as been driven by a significant improvements in key areas such as
technological readiness, which advanced from 87th to 55th, and most significantly by a good
macroeconomic environment, ranked 16th in the world classificatory, labor market efficiency (19th) and
high education and training (55th). Investments in the country are eased by the low level ofcrime and theft
and by a stable political environment and government. Improvements, which mostly involved efficiency
enhancer factors, mark the firm advance of the country from an efficiency-driven economy to an
innovation-driven one. In the same group there are other 20 countries, among which, Russia Federation,
Turkey, Argentina, Brazil. Further progress will be measured against the country’s capacity to make
improvement in those areas meaningful to prepare to the next stage, such as health and primary education,
business sophistication, and innovation, which however remain reasons of concern. Although Kazakistan,
according to EWF’s report is doing better than Russian Federation and Republic ofKyrgyzstan (the only
two other countries in the Region covered by the report), it still shows very limited progresses in these
areas in which it ranks respectively 92th, 99th, 103th.

Tiberio Graziani alla Conferenza di Jalta sull’integrazione eurasiatica

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Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di “Geopolitica”, ha partecipato alla conferenza “Il vettore eurasiatico di sviluppo: problemi e prospettive”, organizzata da “Meždunarodnaja Žizn” (rivista del Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa) e svoltasi a Jalta dal 16 al 20 ottobre scorso. La conferenza ha riunito esponenti di spicco del mondo accademico, diplomatico e giornalistico di Russia, Bielorussia, Ucraina, Kazakistan, Moldova ed esperti d’altri paesi, tra cui appunto il presidente Graziani, di cui riportiamo il testo dell’intervento.

 

Livello teoretico

Un nuovo paradigma?

L’emergere a livello globale di nuove aggregazioni (raggruppamenti) geoeconomici e geopolitici, come ad esempio BRICS, ASEAN, UNASUR, la recente Unione Eurasiatica ecc., impongono agli osservatori di riconsiderare gli strumenti analitici fino ad ora utilizzati, al fine di comprendere pienamente il procedere delle attuali dinamiche mondiali. Le trasformazioni geopolitiche influenzano profondamente le prospettive tradizionali e i vecchi modelli geopolitici, imperniati su entità a base nazionale. Possiamo osservare come, a livello teorico, l’approccio continentalista o macro-regionalista ai problemi geopolitici sia sempre più affermato. Il paradigma continentalista (o macro-regionalista) appare il più appropriato per comprendere i nuovi assi globali, e in particolare per studiare il processo relativo alla strutturazione in corso del nuovo sistema, che definiamo multipolare o multicentrico. Ciò non significa che un approccio “nazionale” (in termini operativi, tutto riguarda l’interesse nazionale) conti di meno, ma che va riconsiderato all’interno di più larghe entità geopolitiche: la macro-regione, il subcontinente, il continente. Perciò è utile condurre uno studio più approfondito dei processi d’aggregazione. Un tale studio prevede le criticità dei sistemi:

  1. centro-periferia;
  2. a rete;
  3. multicentrico.

 
L’IsAG sta attualmente lavorando allo studio comparativo delle dinamiche che portano alla formazione di grandi aree geoeconomiche o geopolitiche, con particolare attenzione per l’Unione Eurasiatica e l’influenza che nuovi attori geopolitici possono esercitare sulle aggregazioni storiche, come l’Unione Europea.

Lo spostamento geopolitico: alcune considerazioni sulle nuove tensioni

Nell’attuale fase di transizione tra il sistema unipolare a guida occidentale e il nuovo sistema multipolare (una transizione che possiamo definire come lo spostamento uni-multipolare) v’è una nuova tipologia di tensione a livello globale. Si tratta di una tensione tra il Processo di Frammentazione (PF) degli spazi geopolitici (“naturali” o “storici”), per lo più lungo linee di frattura religiose, etniche, culturali e “nazionali”, e il Processo di Aggregazione (PA) o integrazione, basato sulle aree perno o su assi geopolitici preferenziali. Il PF è parte integrante della cosiddetta geopolitica del caos praticata dal sistema occidentale, basata su una lunga sedimentazione teorica (si pensi alla teorizzazione degli “archi di crisi” e dello “scontro di civiltà”). Il PA su base macro-regionale è invece una pratica geopolitica in progressione.
Lo studio del PA sarà utile alla sua stessa definizione a livello teorico e per formulare appropriati paradigmi geopolitici. In tale contesto, particolare importanza sta sempre più assumendo la riflessione teorica sul significato di “cerniera” quale elemento essenziale per la costruzione di grandi entità geopolitiche (come la “cerniera mediterraneo-centroasiatica” in relazione all’integrazione eurasiatica), e sulle comuni basi culturali (unità spirituale di culture) di grandi aree geografiche, oltre alle varie manifestazioni di civiltà individuali.

Il sistema multipolare

I nuovi macro-aggregati geopolitici definiscono, per certi aspetti (principalmente economico, demografico e geoculturale), il carattere del nuovo ordine multipolare. Dobbiamo riflettere sul tipo di multipolarismo che la dirigenza intende costituire. Paiono essere quattro gli aspetti precipui da considerare: sicurezza, geocultura, geopolitica e diritto.

Sicurezza

Riguardo alla sicurezza, la priorità sembra essere lo studio della protezione degl’interessi geostrategici dei grandi spazi (macro-regioni, continenti o subcontinenti). Ciò implica il ripensare i modelli stessi degli attuali sistemi d’alleanza militare (e diplomatica).

Geocultura

In relazione agli aspetti geoculturali, inclusi quelli basati sullo studio delle grandi entità geopolitiche del passato, bisogna riflettere sulla “unità spirituale delle culture” per definire i criteri e le pratiche appropriate alla creazione di un’autentica e armoniosa coesistenza tra popoli differenti. Questi devono basarsi sulla salvaguardia delle loro molteplici identità e, soprattutto – dal particolare punto di vista della geopolitica – sul loro destino comune, forgiato in diversi periodi storici, dalla loro specifica posizione geografica e volontà individuale che, nello stesso spazio, sono espresse politicamente, più spesso in conflitto che pacificamente.

Geopolitica e amministrazione dello Stato

Dobbiamo tenere presente che, nel nuovo ordine multipolare, la geopolitica estende il suo campo d’indagine che, oltre alla “costruzione” di possibili scenari geopolitici e della definizione d’appropriate linee guida per implementarli, includerà pure la definizione di proposte e metodi per gestire “politicamente” gl’interessi continentali o macro-regionali.

Diritto multipolare

Ogni “era geopolitica” ha sempre espresso il proprio diritto per regolare le relazioni tra le varie entità geopolitiche. In un’era multipolare è perciò importante identificare gli elementi che costituiscano l’ossatura del nuovo diritto multipolare.

Il modello “eurasiatico”: armonia, rispetto, fondamenta culturali condivise

Affrontare i processi d’adattamento, modernizzazione e miglioramento dell’efficienza in diverse aree della vita, specialmente delle strutture sociali, statali e sovra-statali, è una sfida che nessun dirigente può evitare. La sfida è tanto più grande quanto questi processi debbono essere governati su scala macro-regionale (o continentale), con la molteplice varietà d’interessi e popoli che vi convivono. Date le varietà climatiche, demografiche, etniche, religiose, culturali ed economiche, l’integrazione eurasiatica è la principale sfida geopolitica del ventunesimo secolo, ma rappresenta anche un’opportunità per la stabilità interna della massa continentale eurasiatica e per l’emergente ordine multipolare. Un modello eurasiatico d’integrazione, a mio avviso, pur prendendo in considerazione le aspirazioni delle diverse nazioni che lo compongono, dev’essere guidato dagl’interessi materiali e spirituali del comune destino continentale.

Livello operativo

Affinché l’integrazione eurasiatica sia efficace, bisogna intraprendere alcune azioni prioritarie. Esse includono commercio, infrastrutture per la mobilità, finanza, ricerca e tecnologia, sicurezza, diplomazia, cultura ed educazione.

Facilitare lo scambio commerciale tra i paesi euro-asiatici

L’istituzione di una commissione congiunta Unione Europea-Unione Eurasiatica per sviluppare i processi di standardizzazione e certificazione di prodotti e commodities.

Infrastrutture comuni per la mobilità

Creazione e sviluppo d’infrastrutture comuni per la mobilità di persone e merci nell’area euro-asiatica. La definizione di regolamenti “eurasiatici” relativi alla mobilità. La creazione e sviluppo di “punti di scambio e contatto” (aree di libero commercio” tra l’Unione Eurasiatica e l’Unione Europea. Corridoi eurasiatici.

Infrastruttura finanziaria

Evoluzione della Banca Eurasiatica verso un’infrastruttura finanziaria per diversi componenti dell’Euro-Asia, inclusa l’Unione Europea. Procedure per istituire una Borsa Eurasiatica.

WTO

Promozione, attraverso i media di massa europei, dell’opportunità che paesi come Bielorussia e Kazakistan s’uniscano al WTO.

Ricerca: creazione di un’Area Eurasiatica di Scienza e Tecnologia

Ricerca e tecnologia sono tra gli elementi più incisivi per rafforzare le aree geopolitiche. Nello scenario eurasiatico è assolutamente necessario edificare un comune spazio di ricerca e tecnologia. Si consiglia la seguente road map:

  1. rafforzare i contatti scientifico-tecnologici tra Bielorussia, Russia e Kazakistan;
  2. implementare i rapporti scientifico-tecnologici tra Unione Eurasiatica, Ucraina, India, Cina, Giappone e Unione Europea.
  3. Come misura aggiuntiva, dovrebbe essere edificata una piattaforma dedicata all’Area Eurasiatica per la Scienza e la Tecnologia.

 
Sicurezza comune

Vanno preparati strumenti di sicurezza per salvaguardare l’intera massa continentale eurasiatica: sensibilizzare, tramite i media europei, sull’allargamento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a paesi come il Kazakistan in Asia o l’Italia in Europa; riposizionare la NATO rispetto alla Russia, all’OTSC, all’OCS ecc.

Diplomazia eurasiatica

E’ necessaria una coerente “diplomazia eurasiatica” per risolvere le tensioni esistenti, a beneficio della stabilità continentale.

Cultura ed educazione

Abbandonare le visioni auto-referenziali (eurocentriche, russocentriche ecc.), superare gli egoismi nazionali, riconciliare le legittime aspirazioni nazionali ai fini della coesioni eurasiatica, formare una dirigenza eurasiatica, istitutire un’agenzia euro-asiatica per lo sviluppo di cultura ed educazione. Le priorità di quest’agenzia dovrebbero essere: creare pensatoi dedicati all’integrazione eurasiatica, politecnici euro-asiatici, centri dedicati alla solidarietà economica.

Riguardo alle fasi che accompagneranno quelle sopra elencate, è necessario: sviluppare il dialogo tra le diverse nazioni euro-asiatiche; approfondire le relazioni tra l’Unione Eurasiatica e i paesi BRICS; avviare un nuovo dialogo tra i paesi eurasiatici e l’Unione Eurasiatica.

“La Primavera Araba un anno dopo” presentato al Museo di Roma in Trastevere

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Cliccare qui per il programma in formato PDF

 
La “Primavera Araba” un anno dopo, secondo numero di Geopolitica rivista dell’IsAG, è stato presentato ieri 19 ottobre 2012 a Roma, presso il Museo di Roma in Trastevere, grazie all’organizzazione di Me.Dia (Mediterraneo in Dialogo) e di IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie) e alla collaborazione di Roma Capitale e del Museo. Presenti circa cinquante persone, che hanno riempito la sala conferenze del Museo: tra loro diplomatici, studiosi e comuni cittadini.

L’apertura dei lavori è stata effettuata da Gabriele Tecchiato (segretario generale di Me.Dia, Mediterraneo in Dialogo) e da Daniele Scalea (condirettore di Geopolitica e segretario scientifico dell’IsAG); quest’ultimo ha portato i saluti di Tiberio Graziani, direttore di Geopolitica e presidente dell’IsAG, che non ha potuto essere presente perché impegnato a Jalta in una conferenza internazionale.

Daniele Scalea

Serena Forni, dell’Ufficio relazioni internazionali di Roma Capitale, ha portato i saluti del Sindaco, esprimendo il sostegno del Comune ad eventi culturali come questo, che cercano di gettare una nuova luce su fenomeni ancora indecifrati quali la “Primavera araba”. Secondo la dottoressa Forni, le rivolte arabe sono un processo di maturazione interno al mondo musulmano, ed in questo momento le due sponde del Mediterraneo si sono allontanate a causa d’un concomitante momento di chiusura reciproca.

Serena Forni tra Daniele Scalea e Gabriele Tecchiato

Matteo Marconi, docente di Geografia politica all’Università La Sapienza di Roma, ha apprezzato la capacità di Geopolitica di offrire il punto di vista di studiosi da tutto il mondo, anche da quelle aree solitamente ignorate da altre riviste più concentrate su quella atlantica. All’interno del numero in oggetto ha menzionato in particolare due articoli, che in qualche modo presentano tesi opposte ma sono parimenti meritevoli. Si tratta de Il discorso di Obama al Cairo, sparo d’apertura della Primavera Araba di Mahdi Darius Nazemroaya e di Siria: una nuova polveriera nel “Grande Medio Oriente” di Vagif Gusejnov. Se il primo, citando una gran mole di dati ed eventi, sostiene persuasivamente la tesi della manipolazione statunitense delle rivolte, il secondo pare leggere nelle stesse una ribellione contro l’occidentalismo.

Matteo Marconi

A cadere – ha notato il professor Marconi – non sono le monarchie dal carattere più tradizionale, bensì i regimi maggiormente simili a quelli occidentali. Le rivolte arabe appaiono dunque come un tentativo da parte dei popoli arabi di trovare una propria via alla modernità diversa dal nazionalismo panarabo d’ascendenza occidentale. È un pregiudizio orientalista quello secondo cui l’Altro o è simile a noi, o desidera diventarlo. Per questo si parla di “primavera” quando gli eventi sembrano tendere al nostro modello, e di “autunno”, “inverno” o “rivoluzione tradita” quando vi si discostano.
Le più autorevoli riviste statunitensi – ha ricordato ancora il professor Marconi – nell’ultimo biennio sono state piene d’articoli in cui il Medio Oriente è invariabilmente descritto come un “laboratorio” il cui inesorabile destino è giungere al liberalismo e alla democrazia. Sembra d’assistere a un ritorno all’istituzionalismo: di fronte a una realtà non confacente a ciò che si vorrebbe, la risposta è costruire a tavolino le istituzioni (come i partiti politici) d’una società immaginaria. Alla luce di ciò, si può davvero credere – si chiede il docente della Sapienza – che gli USA siano pieni di Machiavelli in grado di prevedere e manipolare tutto ciò che avviene nel mondo? Il panorama odierno che sta uscendo dalle rivolte arabe appare invero diverso dagli interessi statunitensi. Un ruolo più decisivo, ed incisivo, sembra semmai quello svolto da Qatar e Arabia Saudita.

Daniele Scalea, Paola Saliola e Matteo Marconi

Per l’IsAG è quindi intervenuta Paola Saliola, ricercatrice associata dell’Istituto e redattrice di Geopolitica. Anche la dottoressa Saliola si è focalizzata sull’interpretazione delle rivolte in funzione delle loro cause, ricordando come la realtà sia sempre complessa. Le interpretazioni che guardano ad un solo ordine di fattori osservano solo un lato d’un fenomeno multi-sfaccettato. È il caso delle due visioni, estreme ed opposte ma parimenti riduzioniste, secondo cui le rivolte sarebbero un fenomeno unicamente indigeno o unicamente manipolato dall’esterno.
L’interpretazione endogena è stata a lungo egemone nella stampa occidentale, accoppiandosi il più delle volte con una visione ottimistica delle rivolte – da cui lo stesso termine “Primavera” – quali tese alla libertà e alla democrazia. D’altro canto, ambienti antimperialisti hanno formato l’opinione che dietro le rivolte non vi sia altro che la mano invisibile degli USA. Secondo la dottoressa Saliola è invece necessario prendere in considerazione entrambi gli ordini di fattori. Vi sono cause interne – la perdita di legittimità ideologica e morale dei vecchi regimi “laici”, la povertà dilagante, l’ascesa dell’Islam Politico ecc. – e cause esterne – le ingerenze di altre paesi – che hanno concorso alle rivolte arabe.

Emanuela Irace

È stato quindi il turno, a intervenire, di due giornaliste esperte di mondo arabo che hanno portato le loro testimonianze di prima mano. Emanuela Irace, di ritorno da Tunisia e Libano, si è concentrata particolarmente sul paese nordafricano, dove a suo dire il governo e il parlamento capeggiati da an-Nahdah non hanno mantenuto le promesse, mancando l’impegno di realizzare una nuova costituzione entro il termine promesso. V’è ora timore per il futuro della democrazia ed anche per la condizione femminile, in un paese che tradizionalmente è stato, tra quelli arabi, il più avanzato nell’emancipazione delle donne.

Azzurra Meringolo tra Daniele Scalea e Matteo Marconi

Azzurra Meringolo ha invece parlato di Egitto, paese che ha più volte visitato per la sua attività di ricerca, e in cui si trovava durante i fatidici giorni dello scorso anno – immortalati nel suo libro I ragazzi di Piazza Tahrir. La dottoressa Meringolo ha ricordato il suo primo viaggio, nel 2010, e l’impatto con quella che allora era Piazza Tahrir: là vi si trovavano il palazzo della burocrazia, la sede della Lega Araba, l’Università Americana del Cairo e la sede del Partito Nazionale Democratico di Mubarak. Non si notava un esplicito malcontento – cosa sorprendente vista la disastrosa situazione socio-economica; era entrando in confidenza con le persone che lo si poteva scoprire. V’era infatti una diffusa e profonda paura di esprimersi in pubblico per paura della repressione. Internet, secondo la dottoressa Meringolo, ha dunque avuto un ruolo: quello di fornire l’ambiente in cui i giovani hanno potuto parlarsi liberamente e prendere coscienza delle dimensioni della dissidenza.
Per approfondireLa relatrice ha ricordato anche d’aver partecipato ad una conferenza stampa, cui era presente il figlio e delfino del Presidente, Gamal Mubarak, dal sapore emblematico. Un giornalista rivolse infatti una domanda sulle critiche che il regime subiva sui social networks, salvo sentirsi rispondere con scherno da Gamal Mubarak.
Diversi nodi rimangono ancora da sciogliere, secondo Azzurra Meringolo. I giovani, ostili alla leadership personale per la loro esperienza di vita, non sono riusciti a trovare un capo che li unisse dopo il rovesciamento del regime. Le donne sono state relegate in fondo alle liste nelle ultime elezioni, ma sono organizzate e desiderose di parità. La Costituzione è ancora incerta così come la divisione dei poteri. Forte attenzione ha suscitato poi la sorte degli Accordi di Camp David: l’Egitto non ha certo la forza per una guerra contro Israele, ma quel trattato include anche accordi economici che hanno creato situazioni paradossali. L’Egitto svende infatti il proprio gas a Israele, e una parte della nazione egiziana (il Sinai) si trova costretto a riacquistare il gas indigeno da Israele a prezzo assai maggiorato. Infine, v’è la questione della sfida tra Islam moderato e salafiti. Durante il regime di Mubarak la televisione era interdetta ai Fratelli Musulmani, mentre i salafiti (sostenuti anche da paesi terzi) hanno avuto accesso a taluni canali privati. Ciò ha permesso loro d’acquisire una rapida notorietà e un gran numero di seguaci nel paese, come dimostrato dal risultato nelle recenti elezioni.

Il pubblico in sala

Azzurra Meringolo, nel ringraziare gli organizzatori dell’evento, ha avanzato pure un’altra osservazioneinteressante: ossia che, malgrado gli Esteri siano un argomento sottovalutato dalla stampa generalista, l’interesse tra la popolazione è ampio, come dimostra la folta presenza di pubblico alla conferenza.
Marco Cochi, direttore dell’Ufficio Cooperazione di Roma Capitale, intervendo per ultimo ha lodato Geopolitica per la sua qualità, che può a maggior ragione apprezzare essendo stato per anni il vice-direttore di un’altra rivista di geopolitica. Entrando invece nel merito dell’argomento in esame, il dottor Cochi ha visto all’origine delle “Primavere” arabe una duplice ricerca: della libertà e dello sviluppo economico. Se la libertà è stata conquistata, si è finora mancato il secondo obiettivo, poiché la povertà ancora attanaglia quei paesi.

Tiberio Graziani riceve una targa commemorativa dall’Ambasciatore armeno Rouben Karapetian

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Il 22 ottobre la sala Zuccari del Senato della Repubblica Italiana ha ospitato un evento dedicato al 20° anniversario dell’istituzione di relazioni diplomatiche tra l’Armenia e l’Italia. All’evento, organizzato dall’Ambasciata della Repubblica d’Armenia in Italia, erano presenti deputati e senatori, funzionari del Ministero degli Esteri, personaggi pubblici e rappresentanti della comunità armena in Italia.
Al termine dell’evento l’Ambasciatore armeno S.E. Rouben Karapetian ha consegnato a circa 20 personalità italiane una targa commemorativa dell’anniversario: tra i destinatari del riconoscimento anche Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG. Alcuni degli altri premiati sono stati Albertina Soliani, senatrice; Andrea Orsini, deputato; Marco Clemente, ambasciatore; Stefano Ronca, capo del Cerimoniale diplomatico della Repubblica Italiana; Franco Salvatori, presidente della Società Geografica Italiana; Sara Cavelli, direttrice generale della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI).

Tiberio Graziani riceve la targa commemorativa dalle mani di S.E. Rouben Karapetian, ambasciatore armeno

Il Summit Italo-Spagnolo e le integrazioni regionali: Tiberio Graziani a “La Voce della Russia”

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Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di Geopolitica, è stato intervistato da La Voce della Russia a proposito del Summit Italo-Spagnolo svoltosi a Madrid il 28 ottobre, delle conferenze sull’Unione Eurasiatica tenutasi una a Roma (su iniziativa dell’IsAG stesso) il 19 settembre e l’altra a Verona poche settimane dopo, e dunque sulle prospettive comuni dei processi d’integrazione.
Il presidente Graziani ha espresso la convinzione che queste integrazioni favoriranno pure la riformulazione dell’Unione Europea. Tuttavia, il Summit Italo-Spagnolo, concentrandosi sulle questioni economico-finanziarie, lascia in disparte il tema fondamentale dell’integrazione politica europea.
L’intervista può essere ascoltata in versione integrale cliccando qui.

L’IsAG commenta le elezioni USA: T. Graziani a Sky TG 24 e D. Scalea all’IRIB

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Nell’immediata vigilia delle elezioni presidenziali statunitensi esponenti dell’IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie) sono stati invitati a commentare l’evento sui media italiani.

Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di Geopolitica, è stato ospite nella puntata del 6 novembre di Sky TG 24 Pomeriggio, programma d’approfondimento dell’emittente satellitare diretto da Paola Saluzzi. Il presidente Graziani ha notato come il programma di Romney, che prevede il mantenimento dell’elevata spesa militare e l’enfasi su petrolio e nucleare, ricordi da vicino le politiche condotte dall’Unione Sovietica negli ultimi anni, prima del suo crollo: in una situazione di crisi, anche Washington – in caso d’elezione di Romney – potrebbe dunque optare per una strategia non dissimile da quella dell’URSS. Commentando invece l’imminente inizio del Congresso del Partito Comunista Cinese, che coinciderà con un rinnovo delle più alte cariche dello Stato, ha individuato per Pechino le seguenti priorità in politica internazionale: trovare un più stretto coordinamento con gli altri BRICS, di modo d’avere maggiore voce nella governance mondiale, e ristrutturare l’edificio economico globale.

Il giorno precedente, 5 novembre, Daniele Scalea – segretario scientifico dell’IsAG e condirettore di Geopolitica – è stato invece interpellato da Radio Italia, emissione dell’IRIB dedicata al nostro paese. Sollecitato dall’intervistatrice, Scalea ha ammesso che, malgrado negli USA esista tutt’oggi una democrazia formale, le elezioni si sono già da tempo svuotate di sostanza: le campagne elettorali sono state “spettacolarizzate”, affidate agli esperti di comunicazione anziché a quelli di politica, e si basano più sull’immagine del candidato che sul suo programma completo. Tuttavia, la fase critica che stanno attraversando gli USA ha fatto emergere una seria divergenza di vedute nell’élite, tanto che le ultime elezioni hanno visto realmente scontrarsi diverse proposte strategiche, sebbene esse non siano state al centro della campagna elettorale. Nella fattispecie, Scalea ha espresso la convinzione che i rapporti con l’Iran saranno seriamente influenzati dall’esito delle urne. Un’eventuale rielezione di Obama potrebbe spalancare le porte ad un compromesso.
E’ infatti noto che le trattative e i compromessi con un interlocutore malvisto nel proprio paese possono essere realizzati solo da governi forti, in grado di giustificare le inevitabili concessioni che si debbono fare all’avversario. Obama finora ha avuto su di sé la spada di Damocle della rielezione, ma se dovesse avere successo avrà un nuovo mandato, l’ultimo, in cui poter condurre veramente la sua politica, sfidando eventualmente i gruppi di pressione che l’hanno limitato nel primo quadriennio. Sul lato iraniano, l’ormai debole presidenza di Ahmadinejad – colpita tanto dalla contestata rielezione del 2009 quanto dallo scontro politico con la fazione conservatrice vicina all’Ayatollah Khamenei, è prossima alla fine: nel 2013 è probabile che sia eletto un uomo vicino alla Guida Suprema, costituendo dunque un gruppo dirigente più saldo e compatto al vertice della Repubblica Islamica. Si creerà dunque una congiuntura particolarmente favorevole al negoziato. La normalizzazione dei rapporti con l’Iran rientra appieno nella strategia di Obama, desideroso di disimpegnarsi dal Vicino e Medio Oriente per focalizzarsi sull’Asia-Pacifico. Inoltre l’Iran, se coinvolto in un progetto energetico come il Nabucco, potrebbe rivaleggiare sul piano commerciale con la Russia in Europa, e sottrarre le proprie riserve alla Cina. Al contrario, se Romney presidente, com’è probabile, dovesse alzare il livello dello scontro con Mosca e Pechino, Russia e Cina s’avvicinerebbero all’Iran rendendolo più forte nella sua posizione intransigente sul nucleare.


Tiberio Graziani a “La Voce della Russia” per commentare la rielezione di Obama

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Dopo essere stato ospite negli studi di Sky TG 24 il giorno stesso delle elezioni, il presidente dell’IsAG e direttore di Geopolitica Tiberio Graziani è stato chiamato a commentare la rielezione di Barack Obama da La Voce della Russia, emittente radiofonica russa in lingua italiana. Ospite con lui l’ex ambasciatore Sergio Romano, che è uno dei membri del Comitato Scientifico di Geopolitica. La registrazione audio può essere ascoltata cliccando qui.

Tiberio Graziani ha spiegato che il prossimo quadriennio di presidenza Obama sarà dominato dall’esigenza di adattare gli USA al mutato contesto internazionale, ossia alla fase finale della transizione uni-multipolare, al termine della quale gli Stati Uniti saranno sì una grande potenza, ma non più l’egemone assoluto. Dovrà dunque ripensare il legame transatlantico, trovare una posizione per Washington all’interno dell’emergente ordine multipolare, modificare la condotta degli USA in Medio Oriente. Un’altra questione rilevante riguarderà invece la politica interna. Oltre all’annoso problema del debito pubblico, la decisione di Obama di puntare sulla green economy lo porrà in contrasto con i petrolieri e i centri interessati a rilanciare sul nucleare, che infatti hanno appoggiato, pur senza successo, la candidatura di Mitt Romney.

Elezioni ucraine e congresso cinese: l’opinione di T. Graziani a “La Voce della Russia”

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Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG e direttore di Geopolitica, è stato intervistato dall’emittente radiofonica La Voce della Russia il 29 ottobre a proposito delle elezioni legislative in Ucraina e il 9 novembre sull’apertura del Congresso del Partito Comunista Cinese.

A proposito delle elezioni ucraine, il presidente Graziani ha espresso la convinzione che l’incapacità delle opposizioni di presentarsi con un’unica coalizione ed un unico programma abbia spaesato gli elettori e favorito la vittoria del partito di governo. [clicca per ascoltare]

Parlando invece del Congresso del PCC, il direttore di Geopolitica l’ha definito storico. Il Comitato sarà ristretto da 9 a 7 membri e la guida affidata al tandem Xi-Li. Xi, Li e il Comitato ristretto dovranno affrontare importanti sfide interne ed internazionali: l’ammodernamento della struttura statale e industriale, lo sviluppo del mercato interno, l’acquisizione di ulteriori fonti d’energia, la ridefinizione del ruolo internazionale della Cina. Pechino dovrà infatti decidere se dare ulteriore spinta agli aggregati politici/economici quali i BRICS e l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, se collaborare con la nuova entrata Russia nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, se e come riformulare l’ONU. Le scelte della Cina incideranno profondamente nello sviluppo storico delle relazioni internazionali. [clicca per ascoltare]

L’IsAG al IX Forum Italo-Turco a Roma

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Il 12-13 novembre si è tenuto a Roma, presso il St. Regis Hotel, la nona edizione del Forum Italo-Turco. Quest’appuntamento annuale, che si tiene alternamente a Istanbul e Roma, è patrocinato da Unicredit e dal SAM, Centro di Ricerca Strategica del Ministero degli Affari Esteri turco, e vede tradizionalmente un incontro tra i due ministeri degli esteri. Anche quest’anno l’IsAG è stato invitato a prendere parte al Forum, con ben tre esponenti (il presidente Tiberio Graziani, il segretario scientifico Daniele Scalea e il direttore delle relazioni istituzionali Enrico Verga) su una delegazione italiana di poche decine d’esperti e funzionari.

Il pomeriggio del 12 si è tenuta la sessione a porte aperte, dedicata al tema dell’impatto della crisi dell’Eurozona su Turchia, Italia e Mediterraneo. Dopo i saluti di Giuseppe Scognamiglio, capo degli affari pubblici d’Unicredit, e di Mesut Özcan, vice-presidente del Centro di Studi Strategici turco, a discutere sul tema indicato sono stati Giuliano Amato, presidente del International Advisory Board di Unicredit, Lokman Gündüz, membro del Consiglio dei Direttori della Banca Centrale di Turchia, Vittorio Da Rold, corrispondente de “Il Sole 24 Ore” e Ömer Bolat, ex presidente dell’associazione d’industriali e imprenditori MUSIAD, moderati da Paolo Magri, vice-presidente esecutivo e direttore dell’ISPI.

Tra i principali concetti espressi nella lunga tavola rotonda, in cui ovviamente molte parole sono state spese sulle basi e le prospettive del successo economico turco, è quello secondo cui, se Ankara fosse stata nell’UE, avrebbe rafforzato la posizione dell’Italia e degli altri paesi dell’Europa Meridionale nei confronti dell’asse Merkel-Sarkozy. Ciò avrebbe sicuramente danneggiato, secondo Bolat, le più recenti performances economiche della Turchia, che invece si è potuta espandere liberamente nei mercati dell’Africa e dei paesi islamici, ma avrebbe però alleggerito l’impatto della crisi sull’Unione Europea.

Anche la gestione delle rivolte arabe sarebbe stata diversa, per l’UE, se avesse avuto la Turchia tra i propri membri. Secondo il presidente Amato l’Unione Europea senza Turchia è percepita come “altra” dal mondo arabo, e ciò rende più difficile influenzarlo. L’ex Presidente del Consiglio Italiano, ritenendo l’Unione Mediterranea di Sarkozy un progetto vuoto e il Processo di Barcellona (incentrato sugli accordi di libero scambio) inadatto ai rapporti tra interlocutori assai distanti per il reciproco livello di sviluppo, ha altresì proposto l’idea di una “CECA mediterranea”, imperniata sull’agricoltura e la manifattura. Compito di quest’organismo sarebbe creare una supply chain mediterranea competitiva con quella tedesca. La Germania sta infatti spostando la propria verso l’Europa Orientale, escludendovi sempre più l’Italia, che dunque ha la necessità di trovare rapidamente un’alternativa.

I relatori sono stati dunque coinvolti in un interessante dibattito con la platea, altamente qualificata. Carlo Marsili, già ambasciatore italiano a Ankara, ha proposto di superare l’impasse della questione cipriota ammettendo nell’UE anche Cipro Nord. Stefania Giannini, rettore dell’Università per Stranieri di Perugia, ha voluto ricordare a imprese e finanza il valore di beni intangibili come l’educazione. Il finora mai concretizzatosi progetto di un’università mediterranea avrebbe un enorme impatto nel formare un’intera generazione ed unire così i paesi affacciati su di esso. La proposta è stata apprezzata da Amato e Bolat: l’italiano ha auspicato che lo Stato, con la sua lentezza burocratica, rimanga fuori dall’ambito educativo, in cui dovrebbero invece impegnarsi a fondo i privati; il turco ha ricordato che nel suo paese esistono già le università turco-francese e turco-tedesca, ed ha auspicato la nascita di una trilingue – italiano, arabo e turco, distribuita nel bacino del Mediterraneo.

A lanciare il discorso sul ruolo della Turchia in Nordafrica e Vicino Oriente è stato invece un’intervento del generale Carlo Jean, che è anche membro del Comitato Scientifico di Geopolitica. Jean ha affermato che la Turchia non avrebbe più interesse a entrare nell’UE, in quanto ciò la depotenzierebbe rispetto al mondo islamico, dove invece vuol conquistare l’egemonia. Vittorio Da Rold ha in effetti confermato che la Turchia sta creandosi un’alternativa all’UE: Erdoğan ha recentemente proposto un’unione monetaria con alcuni dei paesi vicini, interni alla sfera d’influenza turca, come presumibilmente l’Azerbaigian o l’Iraq Settentrionale. Inoltre, si pensa anche di cambiare il fuso orario della Turchia dell’est per uniformarlo a quello del resto del Vicino Oriente, e così favorire ulteriormente l’integrazione turca nella regione. Bolat ha ricordato l’impegno finanziario turco, che ammonta in totale a 5 miliardi, in aiuti verso i paesi della “Primavera araba”: in particolare Libia e Tunisia hanno ricevuto mezzo miliardo a testa, l’Egitto ben 2 miliardi. Ha comunque auspicato un impegno congiunto di Turchia, UE, paesi del Golfo e FMI per fornire una road map ai paesi arabi. Lokman Gündüz ha a tale proposito invitato a cambiare mentalità, non considerando i paesi confinanti solo come occasioni d’affari, ma come veri e propri vicini di casa dotati di proprie caratteristiche da prendere in considerazione.
Secondo Amato e la senatrice Emma Bonino, quest’ultima intervenuta dalla platea, la Turchia non avrebbe invece interesse a fare da leader del mondo musulmano, bensì a mantenere la sua specificità democratica e “modernista” nella regione. L’on. Bonino ritiene che l’UE sia un interlocutore più sicuro di tutti gli altri vicini per la Turchia – come dimostrano le recenti tensioni con Siria e Iran – pur essendosi mostrata inaffidabile rispetto alla promessa d’inclusione fatta a Ankara: il mancato rispetto del patto dipenderebbe però più dai singoli leader politici, i quali passano, che non da un deficit permanente dell’organizzazione.

Dopo la lunga tavola rotonda è stato il momento del panel dei ministri, dedicato al tema dell’integrazione europea della Turchia. L’introduzione è stata affidata a Federico Ghizzoni, CEO di Unicredit. Secondo Ghizzoni, sebbene la crescita economica anche in Turchia si sia fatta comprensibilmente più difficile, rimane un paese nel quale valga la pena investire. Nel 2001 il suo sistema bancario era in crisi, mentre oggi è tra i più solidi: politiche stabili e lungimiranti hanno permesso il successo economico del paese anatolico. Unicredit è la quinta banca in Turchia (per capitalizzazione sarebbe terza in Italia), la maggiore straniera in Azerbaigian, e sta per aprire suoi uffici anche in Iraq Settentrionale. YapiKredit, filiale turca di Unicredit, non ha finora distribuito dividendi ma reinvestito tutto nel paese. Ghizzoni ha espresso ottimismo pure per il ritorno alla crescita dell’Europa. Il sistema bancario europeo, malgrado tutto, è riuscito ad adeguarsi alle disposizioni di Basilea 3, mentre le banche statunitensi sono ancora a Basilea 1.

Moderati dall’on. Bonino sono quindi intervenuti i due ministri degli Affari esteri, l’italiano Giulio Terzi di Sant’Agata e il turco Ahmet Davutoğlu. Il primo tema affrontato è quello del “risveglio arabo”. Davutoğlu l’ha presentato come un processo del tutto giusto e naturale. In gioco non vi sarebbero questioni etniche e politiche, bensì le rivendicazioni del popolo opposto all’autocrazia. Questo sviluppo avrebbe potuto avvenire già negli anni ’90, se l’Occidente non l’avesse rallentato per ragioni strategiche. In ogni caso, ha assicurato il Ministro degli Esteri turco, non bisogna temere perché, pur dopo il necessario periodo di transizione, il punto d’arrivo sarà la democrazia. Anche Terzi di Sant’Agata ha espresso sostegno per i processi politici in corso nei paesi arabi, la cui spinta a suo dire provverrebbe dalla consapevolezza dei giovani raggiunta grazie alle nuove tecnologie. Le società arabe sono ora più simili a quelle europee, animate dal desiderio di sviluppo economico e di sicurezza regionale, desiderose di aprirsi all’Europa.

L’on. Bonino ha quindi chiesto se i due ministri pensino a progetti mediterranei italo-turchi, o se sia necessario attendere che si muova l’UE. Davutoğlu ha esaltato il potenziale della collaborazione tra Italia e Turchia, che possiedono tradizioni nazionali fonti di civiltà. La storia della civiltà ruota attorno al Mediterraneo, e andrebbe ricostituita questa presenza, ricostruito un nuovo umanesimo a partire dal Mare Nostrum. La crisi attuale può essere il travaglio di qualcosa di buono. Terzi di Sant’Agata, scendendo più nel concreto, ha espresso il desiderio di sostenere i progetti d’integrazione in Africa e Maghreb, e ricordato che il “Grande Mediterraneo” costituisce un arco d’opportunità da 80 miliardi di euro d’interscambio per l’Italia. Nel prossimo settennato, grazie allo sforzo dei paesi mediterranei – tra cui ovviamente l’Italia – una grossa fetta di fondi UE sarà dirottata dall’Europa Orientale ai paesi arabi.

Il discorso è quindi inevitabilmente scivolato verso la Siria. Davutoğlu ha ricondotto la crisi alla casistica dei “crimini contro l’umanità”, a suo dire compiuti dal regime siriano (con 30.000 morti, 30.000 dispersi a un totale d’un milione di rifugiati, secondo il ministro turco). La Turchia appoggia «le persone che da 20 mesi resistono con onore», per usare le parole del suo Ministero degli Esteri, ed è per questo che ha aiutato a riunire i rappresentanti del Consiglio Nazionale Siriano e dei comitati locali d’opposizione a Doha, dove è stata creata una commissione nazionale presieduta da un cristiano siriano perseguitato dal governo di Damasco. Davutoğlu ha infine rammentato che la Turchia ospita 120.000 rifugiati siriani ed ha ad oggi speso per essi oltre 400 milioni di dollari, e auspicato che altri paesi ne condividano il peso. Terzi di Sant’Agata ha rivendicato la partecipazione di Gran Bretagna, Italia, Germania e Francia alla conferenza di Doha.

Si è infine toccato l’argomento del negoziato UE-Turchia. Secondo il Ministro degli Esteri italiano sarebbe opportuno concentrarsi su quei capitoli d’integrazione che possono procedere più velocemente (dalla mobilità alla cultura) e liberalizzare immediatamente i visti a vantaggio soprattutto d’imprenditori e studenti turchi. Terzi di Sant’Agata giudica incomprensibile l’opposizione d’alcune capitali europee all’eliminazione dei visti: la Turchia è ormai un paese di reimmigrazione, e molti dei suoi cittadini sono potenziali turisti. Davutoğlu ha però dichiarato che non è sufficiente aprire singoli capitoli, ma che è necessario capire la strategia, dove si vuole arrivare. Dove vuole stare l’Europa nel mondo? Il suo potere economico si riduce, e non riesce nemmeno più a gestire le crisi interne. A giudizio del Ministro degli Esteri turco servono dinamismo economico, inclusività culturale e rilevanza geopolitica affinché l’Europa torni ad essere una potenza, e senz’altro con la Turchia al suo interno per l’UE sarebbe più facile soddisfare le tre condizioni. La Turchia è, insomma, la risposta e la cura ai problemi europei. Davutoğlu ha inoltre negato che la Turchia si stia distogliendo dall’Europa per volgersi verso l’Oriente: essa è parte integrante d’entrambi, e dunque non può che guardare contemporaneamente a tutte e due le regioni. La Turchia, ha ribadito, vuole la piena adesione, ma non per chiedere aiuti all’UE. Ankara è oggi forte, ed è anzi pronta a dare aiuti economici ai paesi europei in difficoltà così come ha fatto con quelli arabi. Però, ha messo in guardia il ministro Davutoğlu, si deve tenere a mente che la Turchia ha delle alternative, e che ormai la popolazione non crede più all’equità dell’UE, che ha tradito la parola data a suo tempo.

La mattina del 13 novembre si è invece tenuta la sessione a porte chiuse. Circa 50 esperti, metà turchi e metà italiani (tra cui i tre succitati esponenti dell’IsAG), hanno discusso di progetti economici e politici italo-turchi nel Mediterraneo. A presiedere l’amb. Vincenzo Petrone, presidente di Simest, e il professor Sadik Ünay, dell’Università Sakarya. Base della discussione è stato lo studio realizzato dallo IAI e intitolato Italy and Turkey as Mediterranean Powers: Seeking Joint Partnerships in the Neighbourhood. A presentarlo Stefano Silvestri, Ettore Greco e Nathalie Tocci, rispettivamente presidente, direttore e vice-direttrice dello IAI. Silvestri ha voluto rimarcare che il principio ispiratore del paper non è il bilateralismo ma il multilateralismo: ciò che si propone è una politica europea per il Mediterraneo. La Tocci individua nel fattore socio-economico l’origine – e la possibile causa di fallimento – della Primavera Araba. L’Italia, com’è noto, ha un problema di crescita, ed anche la Turchia deve vedersela con la scarsa produttività in alcuni settori, che le impedisce di fare il salto di qualità. Da queste comuni esigenze possono sortire delle joint ventures trilaterali. Partecipanti turchi e italiani si sono quindi scambiati reciprocamente osservazioni e domande, in un dibattito durato molte ore.

I partecipanti turchi hanno posto sul tavolo alcune questioni problematiche, come quella di Cipro, proposta dal professor Muzaffer Şenel. Per il presidente Silvestri collegare la questione cipriota all’ingresso turco nell’UE non fa che complicare la faccenda, ma il capo-dipartimento del SAM Nuray Inöntepe ha ricordato che proprio Cipro tiene bloccati sei capitoli necessari all’integrazione, e si è chiesto cosa facciano gli altri 26 membri dell’UE. Ufuk Ulutaş, ricercatore della fondazione SETA, ha invece sollevato il problema delle divergenze di visione tra Italia e Turchia su Iraq, Iran e Israele. Il Presidente dello IAI ha risposto che su Iraq e Iran si tratta tutt’al più di differenze marginali, mentre per quanto riguarda Israele, il fatto che la Turchia abbia ancora rapporti e riconosca il diritto all’esistenza dello Stato ebraico porta Ankara su posizioni prossime a quelle italiane – basate appunto sul riconoscimento dei diritti e di Israele e della Palestina; le differenze sarebbero tutt’al più tattiche e di tono. Il ministro plenipotenziario Giuseppe Scognamiglio ha chiesto se i turchi siano consapevoli delle criticità economiche esistenti nel paese anatolico: a rispondergli è stato un altro italiano, ma residente in Turchia, il giornalista Giuseppe Mancini. Quest’ultimo ha informato che il Governo turco, conscio di tali fragilità strutturali, ha preparato un piano infrastrutturale, uno nucleare, una riforma sanitaria e dell’educazione, e previsto importanti investimenti nella tecnologia e nella cultura.

La questione della fiducia è stata invece posta dal professor Ozgehan Şenyuva: le ricerche statistiche dimostrano che la popolazione italiana è in maggioranza non favorevole alla Turchia. A suo parere prima di fare qualcosa assieme è necessaria fiducia reciproca, e dunque bisogna lavorare per cambiare le percezioni popolari. Marco D’Eramo, giornalista de “Il Manifesto”, ha ricondotto questa mancanza di fiducia nella propaganda islamofoba seguita all’11 settembre 2001. Il lavoro va concentrato secondo lui sugli apparati ideologici: poiché a diffondere gli stereotipi sono soprattutto film e serie televisivi, è nel cinema, nella televisione, nella musica che vanno lanciate delle joint ventures. Secondo Nathalie Tocci, il modo migliore per aumentare la fiducia sono invece proprio le azioni concrete, come quelle proposte dal rapporto dello IAI, di cui è una delle autrici.

Inevitabilmente si è parlato anche dell’annoso negoziato per l’ingresso della Turchia nell’UE, questione che, si teme, può danneggiare anche i rapporti bilaterali con l’Italia. Ömer Bolat, ex presidente di MUSIAD e membro dell’AKP, ha invitato a procedere comunque assieme, in attesa dell’integrazione europea, unendo l’eccellente industria italiana all’abbondante manodopera qualificata turca. Il professor Fatih Özbay ha proposto la collaborazione della Turchia coi paesi ex URSS sul Mar Nero e il Mar Caspio come modello di cooperazione mediterranea italo-turca. Daniele Scalea, segretario scientifico dell’IsAG, ha richiamato le parole del ministro Davutoğlu, che il giorno prima aveva posto la priorità sul pensamento strategico complessivo anziché sui singoli capitoli. Secondo Scalea questo metodo andrebbe applicato anche ai rapporti tra Italia e Turchia: concepire in maniera esplicita una strategia comune permetterebbe poi di risolvere più agevolmente i singoli capitoli specifici. Il turcologo Federico De Renzi ha espresso la convinzione che ormai l’ingresso nell’UE non interessi più veramente alla Turchia. Il presidente Silvestri ha comunque rigettato con fermezza la possibilità di proporre progetti d’integrazione alternativi all’UE, suggeriti da alcuni dei delegati turchi in riferimento al Mediterraneo. Piuttosto, le integrazioni bilaterali o piccole integrazioni multilaterali possono essere inserite nel processo d’integrazione complessivo dell’Europa. Lo dimostra lo spostamento dei finanziamenti UE verso il Mediterraneo, che non è un successo dell’Italia ma d’un gruppo di paesi. Silvestri ha dunque citato come promettente l’Iniziativa 5+5 che, grazie all’inclusione di Turchia e Egitto, potrebbe trasformarsi in 6+6. Un progetto come questo, in cui la sponda settentrionale e quella meridionale del Mediterraneo si trovano in condizione di parità, può superare quegli scogli presenti invece nei negoziati con l’UE, in cui un singolo paese si ritrova a dover trattare con 27. Anche Nathalie Tocci ha specificato che l’azione trilaterale proposta dallo IAI non è un’alternativa a quella multilaterale dell’UE, e il suo collega Greco ha limitato a ricerca ed educazione i possibili campi d’applicazione dell’approccio bilaterale.

Un lungo intervento, lodato da Lokman Gündüz, è stato quello del presidente dell’IsAG Tiberio Graziani. Il direttore di Geopolitica ha proposto la nozione di centralità come fondamento della collaborazione regionale italo-turca. L’Italia è infatti il centro del Mediterraneo, mentre la Turchia è al centro di quel “Mediterraneo allargato” che include anche il Vicino e Medio Oriente. Massima priorità andrebbe data, secondo Graziani, alla costruzione di piattaforme dedicate alle infrastrutture, in particolare quelle basate sulla ricerca, l’innovazione e il trasferimento tecnologico, collegando le imprese alla ricerca, promuovendo le innovazioni nelle PMI – ma non prese singolarmente, bensì in clusters d’imprese – nel Mediterraneo allargato. Si potrebbero dunque istituire bandi per le imprese italiane e turche che vogliono allargarsi nella regione. Graziani ha inoltre proposto una rete di pensatoi del Mediterraneo allargato, che ripensino la funzione della regione nel nascente sistema multipolare.

Dilma bacchetta l’Europa. Simona Bottoni intervistata da “L’Indro”

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Simona Bottoni, direttrice di Programma nell’IsAG, è stata intervistata dal quotidiano “L’Indro” a proposito della partecipazione della presidentessa brasiliana Dilma Roussef al XXI Vertice Ibero-Americano a Cadice. La fonte originale è raggiungibile cliccando qui. Di seguito è riprodotto l’articolo di Francesco Giappichini.

 

Dilma bacchetta l’Europa

La presidente brasiliana Dilma Rousseff ha partecipato, nella città andalusa di Cadice, al XXII Vertice ibero-americano. Chiaro il suo messaggio: i piani d’austerità dei Paesi europei non rappresentano la miglior risposta alla crisi globale, che dovrebbe essere affrontata con “politiche che favoriscano la crescita economica e l’inclusione sociale”. Ha cioè rivendicato l’importanza del modello brasiliano, quello che Simona Bottoni, direttrice del Programma ‘America latina’ dell’Istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie (Isag) ha definito “di sviluppo con inclusione, perché si propone una crescita economica stabile, accompagnata da politiche di redistribuzione della ricchezza a vantaggio delle classi sociali più deboli”. Quel modello che ha trasformato la stessa struttura della società, permettendo a milioni di poveri di entrare nel mercato dei consumi.

Eletta in segno di continuità rispetto al padrino politico Luiz Inácio ‘Lula’ da Silva, ha inizialmente deluso vari osservatori che, paragonandola al ‘Presidente operaio’, hanno ingenerosamente definito “impalpabile” la sua gestione alla guida della sesta potenza mondiale. Col tempo però la lady di ferro verdeoro ha iniziato a convincere, almeno i settori progressisti della sinistra mondiale, se non le cancellerie delle potenze che contano. La conferma si è avuta a settembre, all’indomani dell’intervento che ha aperto la 67° sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni unite. Nell’alto consesso l’ex guerrigliera, parlando di donne, pace, Consiglio di sicurezza, Palestina, Cuba e multilateralismo, si è consacrata coma la nuova beniamina dei movimenti sociali.

Rimanendo sul piano internazionale, la figura del Capo dello stato è emersa – oltre che per la difesa del modello economico brasiliano – anche sotto il profilo del rapporto privilegiato con gli Stati uniti. Da un lato Rousseff ha stemperato gli slanci dal sapore terzomondista dell’illustre predecessore, che avevano non poco infastidito Washington: “Lula aveva la tendenza a intromettersi nelle questioni mediorientali”, segnala il politologo André Regis de Carvalho, ricordando l’avvicinamento tra Brasília e Teheran, “mentre la presidente Dilma non segue la stessa linea”, e la sua diplomazia è “più standard e convenzionale”. Dall’altro lato ha rafforzato, nelle relazioni bilaterali, l’autorevolezza del suo Governo, che Barack Obama considera un partner globale: “Non vi sono più importanti pressioni da parte degli Stati uniti affinché il Brasile si allinei sulle proprie posizioni”, sostiene Marcelo Zorovich, docente di Relazioni internazionali presso la European school of project management, “e credo che adottino una linea di maggior rispetto”.

Abbiamo sentito il parere della dottoressa Bottoni che, come anticipato, si occupa di America latina per l’Isag, l’istituto che lavora per “diffondere lo studio della geopolitica e stimolare in Italia un ampio ed articolato dibattito sulla politica estera del paese”.

Che cosa si aspetta il governo brasiliano dal secondo mandato di Barack Obama, alla luce del dato di fatto che l’America latina nel suo complesso è stata trascurata nella recente campagna elettorale del leader democratico? E’ vero che il Brasile non ha importanza nell’agenda Obama perché al di là della rilevanza economica ha poco peso strategico e geopolitico?

I rapporti Brasile-USA sono stati e sono, dal punto di vista economico, piuttosto consistenti. Manca, però, una visione d’insieme che leghi questi due grandi paesi in modo non contingente: tra Washington e Brasilia, infatti, c’è, oggi, una rilevante divergenza economica e una capitale questione politica. La crisi globale ha influito sui rapporti bilaterali: gli ultimi due presidenti brasiliani hanno accusato Washington di essere tra i colpevoli dell’attuale crisi economica (Lula), criticandone il rimedio utilizzato – una politica monetaria espansiva – considerato responsabile di favorire l’apprezzamento del real e la conseguente perdita di competitività dell’export brasiliano (Dilma). Anche a causa dell’apprezzamento del real, la crisi ha notevolmente ridotto negli Usa l’acquisto di merci brasiliane, con la conseguenza che la bilancia commerciale bilaterale di Brasilia è passata da un surplus di oltre 6 miliardi di dollari ad un deficit di oltre 8 nel giro di appena quattro anni (2007-2011). Forse non più importante ma di certo più delicata delle divergenze economiche è la questione politica: il Brasile aspira ad un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e gli Stati Uniti si limitano a prenderne atto senza sostenere questa candidatura, come, invece, hanno fatto con l’India (peraltro paese non firmatario del Trattato di non proliferazione, di cui il Brasile è, invece, firmatario).

Ciò significa che la Casa bianca ancora non si fida del Brasile? Oppure vuol far pagare presunti sgarbi del passato?

Per i brasiliani l’ingresso nel Cds dell’Onu sarebbe il riconoscimento di un’ascesa economica incontestabile che ha portato il paese ad ampliare il raggio dei propri interessi geopolitici e a pretendere di avere voce in capitolo su questioni come il nucleare iraniano, la guerra in Libia, l’embargo contro Cuba e la repressione in Siria. Proprio le posizioni espresse dal Brasile su questi temi, però, stanno disincentivando Washington a garantirgli l’appoggio richiesto. La situazione attuale non è sorprendente: agli Stati Uniti non conviene esporsi a favore di uno Stato che ritengono ancora lontano da una posizione di leadership subregionale riconosciuta dai suoi vicini. Penso che la Rousseff si attenda dal secondo mandato di Obama un cambio di rotta.

A nostro giudizio la presidente, pur non avendo ancora convinto i poteri forti a stelle e strisce, sta facendo pian piano breccia presso i settori progressisti del mondo intero. E’ d’accordo?

Sebbene per tradizione il discorso di apertura dei lavori dell’Assemblea dell’ONU viene riservato al presidente brasiliano (e questo già dalla prima sessione nel 1947), la Rousseff è stata la prima donna relatore della storia ad aprire il forum annuale dell’Assemblea Generale il 21 settembre scorso. Trovo che questo sia significativo su quanto le donne abbiano fatto nella direzione di occupare sempre più ruoli d’importanza strategica nel governo dei popoli. La Rousseff, come spesso sanno fare le donne, ha deciso di parlare a viso aperto e con coraggio, chiedendo ancora una volta un seggio permanente per il suo paese e ponendo l’accento sulla crisi che sta investendo il nord del mondo: i paesi emergenti (in prima linea i Brics) stanno crescendo in modo impetuoso e Dilma ha spiegato che è interesse dello stesso nord condividere un po’ di responsabilità con queste forze fresche.

Una battuta sui rapporti col Governo di Caracas. Qual è l’interesse della Rousseff?

Ha interesse sia a mantenere i rapporti col Venezuela che a contenere il regime populista di Chávez: questa politica nei confronti del Venezuela ha fatto sì che il Brasile sostenesse l’adesione del Venezuela al Mercosur.

La Società Geografica Italiana premia Matteo Marconi come giovane geografo dell’anno

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Matteo Marconi, direttore del programma di ricerca “Teoria geopolitica” dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), ha ricevuto giovedì 22 novembre 2012 il XVI Premio “Società Geografica Italiana” (per l’occasione intitolato a Gaetano Ferro nel venticinquennale della sua elezione a presidente del sodalizio), rivolto a giovani studiosi nel settore delle scienze geografiche.

La commissione giudicatrice era composta da Franco Salvatori, presidente della Società Geografica Italiana, Giuseppe Scanu (professore ordinario all’Università di Sassari) e Gian Marco Ugolini (professore ordinario all’Università di Genova). La Società Geografica Italiana è uno dei più prestigiosi enti di studio del nostro paese, fondata nel 1867 e con sede a Roma presso Villa Celamontana.

Matteo Marconi, oltre ad essere direttore di programma nell’IsAG, è docente di Geografia politica ed economica all’Università di Roma Sapienza. Dottore di ricerca in “Geopolitica e culture del Mediterraneo”, si occupa prevalentemente di storia della geopolitica e dell’analisi del fenomeno etnico-culturale contemporaneo. Ha contribuito al recente Studi su Gerusalemme, volume a cura di Biancamaria Scarcia Amoretti pubblicato dall’Università La Sapienza assieme all’Istituto per l’Oriente “C.A. Nallino”. Matteo Marconi parteciperà alla presentazione di questo volume che si terrà venerdì 7 dicembre, alle ore 17, presso i locali dell’Istituto per l’Oriente, in Via Alberto Caroncini 19 a Roma.

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